Lasciò l’albergo, demoralizzato, con un gran bisogno di aria fresca e di movimento. Su Darruu era abituato a farsi una lunga nuotata ogni mattina: estate o inverno, nebbia rossa o nebbia rosa. Lì, in quella mostruosa giungla d’asfalto e di cemento, non poteva permettersi un esercizio del genere; i suoi muscoli si andavano atrofizzando e dolevano per l’inattività.
Così si mise a camminare.
Percorse strade strette, vecchie di duemila anni, vicoli tortuosi che scendevano al fiume puzzolente e inquinato che scorreva nel cuore della gigantesca metropoli. Sostò sulla riva del corso d’acqua, guardando la corrente pigra e fangosa correre verso il mare. Il cielo pullulava di elitassì, non di uccelli. La frenesia del lavoro contagiava ogni cosa.
Pensò che la Terra fosse un mondo ricco. Un mondo di negozianti, di mercanti, di finanzieri e di ladri. Non esistevano valori morali, lì: neppure il senso della disciplina militare. La Terra era un curioso miscuglio di individui spietati oppure deboli, e Harris ormai disperava di riuscire a comprendere questo tipo di civiltà.
Il puzzo del fiume lo opprimeva. Si allontanò, premendosi il fazzoletto contro il naso e tornò verso il centro. Un numero esorbitante di autorobot gli giostravano intorno, da ogni parte. Era sconvolto dall’onnipresenza della folla, una folla indaffarata, che infestava tutti i luoghi. Nove miliardi di individui sopra un solo mondo, e piccolo per giunta… Roba da vertigini. Eppure sapeva che c’erano ancora vaste zone della Terra dove non viveva nessuno, distese incolte e foreste intricate che non erano state ancora bonificate, anche se i villaggi dei coloni cominciavano ormai a rosicchiarne i contorni.
I Terrestri preferivano ammucchiarsi in enormi città, e lasciare che il terreno all’intorno andasse alla malora. Perché? Perché quell’inurbamento pazzesco?
Avevano paura di restare soli?
Harris si strinse nelle spalle. Su quel mondo si sentiva soffocare. Sarebbe stato felice di abbandonarlo, di tornare su Darruu, di rivedere un campo aperto e respirare l’aria pura, di rabbrividire alla carezza dell’acqua fresca nelle prime ore dell’alba.
Passò davanti a un edificio talmente lucido, che le pareti sembravano specchi di pietra. La sua faccia riflessa, appena un poco deformata, lo guardò di rimando. No, non la sua faccia, non la faccia di Aar Khiilom, ma quella di Abner Harris. Cominciava a dimenticare le sue vere fattezze. Aar Khiilom, della città di Helasz, era uno straniero per lui, ora. Abbassò un attimo le palpebre e rivide il suo viso di un tempo, con gli occhi rossi, la pelle dorata e senza peli, gli zigomi angolosi che sporgevano bruscamente lasciando le occhiaie nell’ombra.
Un giorno riavrò il mio corpo, la mia faccia, il mio aspetto si disse, pieno di speranza. Gli avrebbero strappato il roseo strato superficiale, avrebbero rimosso l’oscena foresta di peli bestiali che ci spuntava sopra e avrebbero tolto l’imbottitura che nascondeva le lame taglienti degli zigomi. I chirurghi avrebbero innestato di nuovo i «viticci». Non sarebbero stati più funzionali, e non lo avrebbero avvertito in anticipo delle variazioni della pressione barometrica, ma quello era un sacrificio relativamente piccolo. Un Servo dello Spirito doveva essere pronto a donare tutto: gli occhi, il cuore, e perfino la vita, se Darruu gliel’avesse chiesto. Il privilegio della nobiltà comportava anche degli obblighi, e lui non lo aveva mai messo in dubbio.
Ma languiva dal desiderio di tornare a casa.
Languiva dal desiderio di riprendere le proprie sembianze.
Carver ha ragione pensò. Dobbiamo colpire in fretta, eliminare i Medlinesi e le loro trame. E poi, a casa. A Darruu!
Mentre le ombre pomeridiane cominciavano ad addensarsi, Harris tornò all’albergo. Mangiò solo, nel ristorante. Non aveva molto appetito, così scelse piatti semplici, evitando le voci più esotiche del menu. Poiché quel posto accoglieva una vasta gamma di clienti provenienti da ogni parte dello spazio, la lista proponeva ghiottonerie di ogni angolo dell’Universo… perlomeno fin dove i commercianti terrestri svolgevano la loro attività. Ma non c’erano piatti di Darruu, né dei pianeti limitrofi, e Harris in quel momento non aveva voglia di assaggiare specialità sconosciute.
Dopo mangiato, tornò in camera sua e si sdraiò sul letto. Prese istintivamente la posizione più comoda per un darruuese, cioè sul dorso, con le gambe in aria e le ginocchia flesse; ma riflettendo che poteva trovarsi sotto l’occhio di un dispositivo-spia, si distese nella tradizionale posizione di riposo terrestre. E cercò di rilassarsi.
Verso sera, l’amplificatore del segnale si fece vivo con il caratteristico suono. Lui allungò un braccio e azionò il comunicatore.
«Qui Harris.»
«Carver. Appuntamento tra un’ora.»
«Dove?»
«Ottantanove-sessantatré Aragon Boulevard. All’ottavo piano.»
Harris ripeté l’indirizzo. Carver chiuse. Con un senso di piacevole eccitazione per il termine di quella forzata e noiosa inattività, Harris si alzò, si vestì, prese le sue armi e uscì.
Chiamò un elitassì e diede l’indirizzo al pilota. L’uomo si girò sulla sua poltroncina. «Ripetetemi l’indirizzo» disse.
«Aragon Boulevard. Ottantanove-sessantatré.»
«E chi lo sa dov’è? Aspettate che chiedo informazioni al calcolatore.»
Harris aspettò. Pensò con rabbia che quella era una città insopportabile. Neanche i piloti sapevano orizzontarcisi! La metropoli era troppo grande, certo, ma ciò non aveva niente a che fare col problema in se stesso. Perché non esisteva un elenco sistematico delle strade? Mai sentito parlare di piani regolatori urbani, sulla Terra? Non sapevano che cosa fosse un reticolo stradale? E perché davano un nome alle vie, invece di indicarle con un numero?
Pensò che era proprio un pianeta assurdo.
Eppure, nonostante la loro inefficienza e irrazionalità, i Terrestri erano penetrati nella galassia assai più in fretta di qualsiasi altra specie nella storia degli esseri intelligenti. Era una constatazione agghiacciante. Che disastri combineranno si chiese, se messi in condizione di sfruttare tutte le loro facoltà?
Che sarebbe successo, quando i nuovi superuomini avrebbero dominato il pianeta?
Rabbrividì preoccupato. Imprecò di nuovo contro i Medlinesi. Erano completamente privi di buonsenso? Non vedevano la minaccia che li sovrastava?
L’elitassì si alzò nell’aria. Harris si appoggiò allo schienale e cercò di calmarsi. La situazione presto sarebbe stata sotto controllo. Presto avrebbero eliminato gli agenti Medlinesi, e non ci sarebbe stato più niente da temere dalla Terra e dalla nuova razza.
L’Aragon Boulevard, nonostante il suo nome altisonante, si rivelò una strada contorta e polverosa all’estremità est della città, sulla riva del fiume. Non c’era neppure una rampa per elitassì in vista, e il pilota aveva dovuto lasciare Harris al centro di una piazza, qualche isolato più in là.
Nelle tenebre che andavano addensandosi, Harris si diresse verso l’isolato 8963 e trovò l’edificio vecchio e rovinato dalle intemperie. Non c’era nessuno di guardia, nell’atrio dell’ingresso. Lui prese l’ascensore.
Salì fino all’ottavo piano — nella scricchiolante imitazione di ascensore che vibrava tanto da fargli temere di ritrovarsi al pianterreno da un momento all’altro — e si fece strada lungo un corridoio polveroso e malamente illuminato, fino a una porta scrostata e sgangherata da cui provenivano il debole sibilo e il chiarore giallastro che indicavano la presenza di un campo protettivo.
Harris sentì nell’addome il delicato pizzicorino che lo avvertiva di essere osservato da un dispositivo di controllo elettronico. Aspettò, paziente.