Lui annuì, con durezza. I cinque lasciarono la stanza. Harris fissò gli animaletti chiusi nelle gabbie e i loro occhietti tondi lo fissarono, quasi comprendessero che cosa stava per fare.
«Ora!» gridò Carver da fuori.
Harris esitò un attimo, poi la sua mano premette contro il fianco.
Lui non sentì niente.
Ma gli animaletti cominciarono a contorcersi e a gemere, in un’improvvisa agonia.
I più piccoli morirono senza avere il tempo di soffrire e piombarono sul fondo della gabbia. Le code vibrarono per un attimo, le zampette si tesero, rigide, gli artigli annasparono nell’aria un istante, poi tutto fu finito.
Ma quelli più grossi lottarono contro la morte. Poi anche loro cedettero, cadendo con un tonfo sordo e acciambellandosi grottescamente come se volessero dormire.
Harris staccò la mano dal fianco. Si avvicinò alle gabbie, ne aprì una, introdusse le dita. Sfiorò i cadaverini pelosi e sentì solo rigidità e morte. Gli occhi che un attimo prima erano grandi e lucenti, ora avevano una fissità innaturale e lo guardavano immobili, quasi accusandolo.
«Be’?» gridò Carver.
«Ha funzionato» disse lui. «Potete tornare. È tutto finito.»
I cinque Darruuesi rientrarono nella stanza. Reynolds tolse gli animali dalle gabbie e li esaminò.
«Morti» disse. «Tutti.»
«Ma non uccide gli esseri umani?» chiese Harris.
«Li tramortisce soltanto» rispose Reynolds. «Anche da vicino. Impossibile costruire un subsonico in grado di uccidere esseri umani risparmiando il portatore.»
«E loro non possono difendersi?»
«No» disse Carver. «L’unica difesa possibile sarebbe uno schermo a cicli irregolari come il vostro, attivato nello stesso momento in cui il vostro entra in azione. Ma l’irregolarità dei cicli è del tutto irrazionale e irripetibile. Assolutamente. Quindi ogni difesa è semplicemente impossibile, Harris. Garantisco io!»
7
Uno alla volta, i sei agenti di Darruu uscirono nella strada e si allontanarono in direzioni diverse. Harris dovette camminare per un chilometro e mezzo prima di lasciarsi alle spalle lo squallido e deserto quartiere di magazzini e depositi, ed entrare in uno meno sordido, con una rampa per elitassì. Arrivò al suo albergo che mancava poco alla mezzanotte, ordinò da mangiare perché era affamato, poi salì in camera sua.
Mentre si spogliava, osservò attentamente il fianco e la coscia. Nessuna cicatrice. Tuttavia lui era in grado di tramortire chiunque si fosse trovato entro un raggio di dodici metri. Se fosse stato armato così la notte precedente, Beth Baldwin non se la sarebbe cavata e tutto il resto non sarebbe accaduto.
Pazienza. Grazie alla sua cattura, lui aveva potuto scoprire la reale entità dell’operazione di Medlin sulla Terra. Se avesse ucciso Beth la prima notte, Darruu non avrebbe avuto idea dello scopo vero che si proponevano gli agenti Medlinesi.
Spense la luce.
Dormì, ma senza riposare.
Il mattino seguente attraversò in elitassì la città, fino al quartier generale di Medlin, lontano, a sud-est. Tutto era stato accuratamente predisposto. L’elicottero lo depositò parecchi isolati più in là dell’edificio, e mentre lui aspettava, fermo sul marciapiede affollato, vide il gruppo dei Darruuesi riunirsi.
C’era Carver, appoggiato a un lampione e intento a leggere il giornale.
Reynolds, che guardava la vetrina di un negozio di vini, sul marciapiede dirimpetto.
McDermott, che passeggiava su e giù davanti a una banca, lanciando continue occhiate all’orologio da polso.
Patterson, che curiosava placidamente tra le pubblicazioni di un’edicola.
Tompkins, in piedi davanti alla merce esposta da alcuni venditori ambulanti che cercavano di vendere cose utili per la casa.
Era una scena del tutto normale. I cinque erano ben distanziati, lontani gli uni dagli altri. Nessuno avrebbe potuto metterli in relazione tra loro, né indovinare che erano esseri alieni travestiti da Terrestri.
Uno dopo l’altro alzarono la testa, gli lanciarono un’occhiata, fecero un impercettibile cenno col capo e tornarono a ciò che stavano facendo. Harris fece il segnale di riconoscimento darruuese e si allontanò per compiere la sua tragica missione.
Mentre s’incamminava verso la casa dove aveva sede il quartier generale di Medlin, pensò che tutto era molto semplice… Anzi, semplicissimo. Entrare, sorridere cortesemente, fare quattro chiacchiere con i Medlinesi… tramortirli con il congegno subsonico e infine… friggergli il cervello con l’annientatore.
Raggiunse l’edificio e si fermò un attimo fuori, per riflettere.
Tutt’intorno, i Terrestri attendevano frettolosamente ai propri lavori. Il cielo era d’un azzurro abbagliante, con qualche nuvola bianca qua e là. Ma nell’azzurro pacifico di quel cielo, c’erano la volta tenebrosa dello spazio e i globi ardenti delle stelle.
Molte di quelle stelle avevano giurato fedeltà a Darruu. Altre, a Medlin.
Chi aveva ragione? Chi torto? Nessuno dei due? Tutti e due?
Poco lontano, cinque Darruuesi aspettavano con aria innocente, pronti ad accorrere in suo aiuto se lui avesse incontrato difficoltà nell’uccidere gli agenti Medlinesi. Ma era improbabile che ne incontrasse, se il subsonico era efficace e sicuro come garantiva Carver: aveva funzionato con efficienza agghiacciante sugli animali da esperimento. Però lui aveva ormai imparato a non sottovalutare le risorse dell’avversario.
Per quarant’anni, su Darruu era stato addestrato a odiare i Medlinesi: radici e rami, uomini e bambini, perfino i feti dentro gli uteri. E ora, tra pochi minuti, avrebbe compiuto quello che era considerato l’atto più nobile che un Servo dello Spirito potesse compiere… sbarazzare l’Universo di un gruppo di quegli esseri abominevoli.
Tuttavia non gli sembrava una prospettiva gloriosa. Avrebbe semplicemente commesso un assassinio. L’assassinio di alcuni Medlinesi travestiti da alieni Terrestri.
Entrò nell’edificio.
Ricordava l’atrio anche troppo bene: l’enorme ambiente, l’alto soffitto a volta, la folla di Terrestri affaccendati. Si diresse verso uno degli ascensori per la discesa. I Terrestri non avevano più spazio per sviluppare in senso verticale le loro città — erano arrivati fino a grattacieli di centocinquanta piani, ma non si fidavano a costruirne di più alti — e avevano cominciato a scavare sottoterra. Quel grattacielo si elevava di novanta piani nell’aria e sprofondava per altri cento nelle viscere della città.
Harris scese, scese, scese, per un tempo interminabile. Infine l’ascensore si fermò. Lui uscì, si avviò come in sogno lungo il corridoio ormai noto che portava alla sede dei Medlinesi. Gli sembrava di sentire il peso del minuscolo generatore subsonico sulla coscia. Sapeva che era soltanto un’impressione, ma la presenza di quella pallina metallica lo irritava ugualmente.
Si fermò un attimo nel campo di un dispositivo di controllo, davanti alla porta dei Medlinesi. Aspettò che qualcuno gli rivolgesse la parola, ma nessuno fece domande. Un istante dopo la porta scorrevole si aprì all’improvviso, sparendo alla vista, e una faccia sconosciuta lo guardò. Era la faccia di un terrestre (almeno così pareva all’aspetto), con le mascelle ricoperte di carne abbronzata.
Il terrestre gli fece segno di entrare. Harris attraversò la soglia e sentì la porta richiudersi alle sue spalle.
«Io sono Armin Moulton» disse l’uomo con voce profonda. Non gli tese la mano, né Harris allungò la sua. «Voi siete il maggiore Harris?»
«Esatto.»
«Ci fa piacere che siate venuto. Beth vi aspetta là dentro.»
L’ultima volta che era stato in quel posto, era troppo intontito dall’effetto del raggio paralizzante per poter osservare con la dovuta attenzione. Ora vedeva che gli uffici dei Medlinesi erano spaziosi, con numerosi corridoi che si diramavano in tutte le direzioni. Senza dubbio la cella dove lui aveva passato la notte era in fondo a uno di quei corridoi. L’arredamento delle varie stanze era piacevole e piuttosto costoso.