Con un sobbalzo, si accorse dov’era. Stava guardando nella mente della medlinese che si faceva chiamare Beth Baldwin. Vedeva l’essenza di lei, nuda. Poteva scrutare attraverso tutti i suoi ricordi, chiaramente come se fossero propri… anzi di più. Vedeva, attraverso gli occhi di Beth, l’immagine di una casa medlinese, con alberi taglienti come lame di coltello che luccicavano azzurri al sole e bambini che sguazzavano in uno stagno. Strano a dirsi, i Medlinesi non gli sembravano più grotteschi, ora. Gli sembravano… normali.
Poi vennero le cerimonie religiose. Dov’erano i sacrifici umani, i rituali sacrileghi di cui aveva sentito parlare? Vedeva soltanto gesti pacifici, come quello di accendere candele e preghiere a un’Unità Galattica. Le preghiere erano molto simili a quelle che venivano rivolte allo Spirito, e lui si sentiva stranamente «trasferito».
Stava vivendo la vita di Beth, percorreva il corso della sua esistenza con disinvoltura, crescendo con lei, soffrendo per gli sconvolgimenti dell’adolescenza, le tensioni del corpo che matura, le ansie del primo amore. Senza alcun imbarazzo, spiava nelle profondità del suo essere, perché lei voleva così.
Non vide alcuna delle cose orribili che si era aspettato di trovare in una mente medlinese.
Vedeva solo fede, onestà e amore per la verità. Vedeva un coraggio ostinato. Vedeva molte cose che lo riempirono di umiltà.
Vide peccati, ma peccati onesti e onestamente riconosciuti. Vide debolezze. Vide meschinità. Lei non era una santa, ma neanche apparteneva a quella specie di dèmoni cui i Medlinesi erano da sempre assimilati.
La vide dedicarsi al servizio del suo popolo, addestrarsi alla missione sulla Terra. La vide sul tavolo operatorio, tra i chirurghi intenti a trasformarla in una ragazza terrestre. Ebbe una visione fugace di Beth nel suo corpo nuovo, davanti a uno specchio, che osservava piena di stupore le linee voluttuose che ora le appartenevano. E poi venne Beth che imparava a comportarsi come una donna, a parlare il linguaggio della Terra, Beth che partiva per la Terra, che si metteva in contatto con i colleghi medlinesi e poi con Wrynn e gli altri mutanti.
Vivere nel cervello di un altro era un’esperienza che bruciava l’anima. Harris capì che effetto faceva avere dei seni, quali erano le gioie di una donna medlinese. Vide, attraverso gli occhi di lei, come aveva fatto a individuarlo mentre lui viaggiava verso la Terra, come aveva preso alloggio al suo albergo e come gli era finita contro quel giorno.
Poi, con sorpresa, vide se stesso attraverso il filtro degli occhi di Beth, e l’immagine non era spiacevole. Lei provava un certo disgusto per la sua natura darruuese, ma oltre a quello c’era molta pietà. Perché, pietà?, si chiese Harris. Poi capì che Beth sentiva compassione, semplicemente perché lui era di Darruu. E c’erano altre emozioni: speranza, fiducia, perfino amore per lui, e un immenso dolore al pensiero che sarebbe rimasto per sempre un nemico.
Harris tremò.
Una rivelazione dopo l’altra si riversarono nel suo cervello allibito. Lui perse il contatto con la propria identità. Si confuse, s’immerse, diventò la donna medlinese che si faceva chiamare Beth Baldwin.
E finì per avere pietà di se stesso.
Povero, tormentato darruuese pieno di rancore. Povero distruttore. Povero contestatore. Perché non sai amare? Perché non sai abbracciare con cordiale amicizia? Perché paura, perché invidia, perché odio amaro e squallido per tutto ciò che è buono, puro e bello?
Questo era il pensiero di Beth. Ma ora era anche il suo. Temette che il cervello gli scoppiasse nello sforzo di contenere la propria mente e quella di lei.
In tutta la storia ci sono state razze come la vostra, pensava Beth. I distruttori, gli imitatori, gli assassini del sogno. Anche la Terra ha avuto i suoi: i Romani, gli Assiri, gli Unni. Voi Darruuesi siete dello stesso tipo.
Lui crollò il capo, cocciuto. Noi abbiamo la cultura gridò silenziosamente. Voi no. Noi abbiamo la religione, l’arte, la filosofia…
Ma i suoi pensieri erano vuoti e senza significato, e lui lo sentiva. Appassivano e si rattrappivano allo splendore abbagliante della mente di Beth. Il pietoso bastione difensivo della civiltà darruuese non reggeva all’urto di ciò che lui ora sapeva.
L’Universo gli rutilava intorno, adesso. Le stelle parevano girandole e schizzavano dalle loro orbite. E il collegamento continuava, la sua mente era ancora unita a quella di Beth, il connubio telepatico si prolungava. L’anima di lei era la sua. Tutto ciò che lei aveva pensato, sperato, temuto e amato era suo, e lei gli apparteneva, e lui apparteneva a lei, e l’esplosione di purezza e bontà era quasi intollerabilmente dolorosa.
Ora vedeva la verità.
Per quanto lo schiantasse, la vedeva chiaramente e non poteva più dubitarne. I Medlinesi stavano progettando la propria rovina. Lavoravano consapevolmente ed entusiasticamente per portare alla luce una nuova razza. Era una rivelazione sconvolgente. Contrastava con tutto ciò che lui aveva fino a quel momento considerato razionale. Ma loro si impegnavano con allegria, entusiasmo, buona volontà.
Sentiva la mente di Beth ritrarsi dalla sua, ora. Si aggrappò al collegamento con disperazione, cercando di mantenerlo intatto, ma non ci riuscì.
Il legame si ruppe.
Harris si ritrovò solo, tremante, con l’impressione di essere stato spogliato nudo fino alle ossa. Fissò Beth a pochi passi da lui, e gli sembrò che fosse una parte del suo corpo troncata bruscamente dal bisturi di un chirurgo.
Lei gli sorrideva con calore, un sorriso che non tradiva nessuna vergogna per quello che l’altro poteva averle letto dentro.
«Adesso cercate la mente del vostro capo, Carver» disse Beth. «E collegatela a quella.»
«No» protestò Harris, inorridito. «Non…»
Troppo tardi.
Il mondo gli girò di nuovo intorno, oscillò, si stabilizzò. Lui sentì l’aroma del vino darruuese, la puntura delle spine dei thuuar, vide le lune brillare nel cielo e le pianure farsi di porpora all’alba.
Poi i ricordi superficiali si scostarono, per permettergli una rapida visione in profondità della mente del darruuese che portava il nome di John Carver.
Era una spaventosa voragine di odio folle. Harris si ritrovò a guardare in un vortice, una specie di buco nero rutilante e torbido, dove forme contorte fluttuavano e giravano su se stesse, e creature con strani artigli arrancavano, disgustose, protendendo verso l’alto tentacoli leggeri. Odio, delitto, ogni concepibile schifezza erano riuniti laggiù. Sentiva la gelida immondezza salire su dal pozzo, sommergerlo. E rabbrividì. Udiva suoni, aspri e discordanti, urla di rabbia, schifosi tuoni ruttanti e, sotto a tutto questo, un rumore continuo come se creature di dimensioni enormi si avvoltolassero nel fango appiccicoso. E, di quando in quando, lo schianto nauseante di mandibole che si chiudevano su membra che andavano in frantumi.
Era un incubo di impensabile orrore. Harris indietreggiò barcollando, rabbrividendo, rendendosi conto che il mutante terrestre gli aveva permesso di penetrare solo per una frazione di secondo in quell’inferno.
Si lasciò cadere sul tappeto, come un povero fantoccio informe, coprendosi la faccia con le mani. Era ancora sconvolto da quelle visioni d’incubo, dall’odiosa voragine di oscenità e bestemmie che ribollivano in fondo alla mente di John Carver, sotto lo strato esteriore di scene ambientate nel bel paesaggio di Darruu.
Un momento dopo alzò la testa. La bocca si contrasse inutilmente, poi riuscì a chiedere: «Che cos’erano quelle… quelle creature?»
«Raccontateci che cosa avete visto» disse Beth.
«Non so descriverlo. Animali… insetti… serpenti… tutti neri o in gradazione di grigio. Una vista nauseante, Beth. Fango, melma, limo dappertutto.»