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— Sareste delle specie di spazzini culturali?

— Mm, sì. Penso che sia un’espressione efficace.

— Be’, perché?

— Perché cosa?

— Perché lo fai?

— Qualcuno deve pur farlo, dato che si tratta di pattume culturale. Il che lo rende degno d’essere raccolto. Io conosco il mio pattume meglio di chiunque altro sulla Terra.

— Senti la tua missione, e sei anche modesto. È molto bello.

— Per di più non c’era tanta gente tra cui scegliere quando mi misi in lista per quel lavoro; e io sapevo dov’era sepolto un mucchio di pattume.

Lei mi tese un drink, bevve un sorso e mezzo del suo, e chiese: — Sono davvero ancora in circolazione?

— Chi? — m’informai.

— Le divinità SPA. I vecchi dèi. Come Angelsou. Credevo che tutti gli dèi avessero lasciato la Terra.

— No, non è vero. Molti di loro ci assomigliano, ma questo non significa che si comportino come noi. Quando gli uomini se ne sono andati non si sono offerti di prenderli con sé, e anche gli dèi hanno una loro dignità. E del resto, forse dovevano fermarsi in ogni modo: l’ananke, il destino mortale, sai. Nessuno può sconfiggerlo.

— Come il progresso?

— Già. Parlando di progresso, come va Hasan? L’ultima volta che l’ho visto era completamente fuori uso.

— È in piedi. Ha un gran bernoccolo in testa, ma il suo cranio è robusto. Nulla di serio.

— Dov’è?

— Su nel corridoio, a sinistra. Nella Stanza dei Giochi.

— Credo che andrò a porgergli i miei rispetti. Mi scusi?

— Scusato — rispose, annuendo, e se ne andò a sentire Dos Santos che parlava a Phil, il quale, naturalmente, fu ben lieto dell’intrusione.

Nessuno alzò lo sguardo quando me ne andai.

La Stanza dei Giochi si trovava all’altro capo del lungo corridoio. Mentre m’avvicinavo, udii un tang seguito da un silenzio, seguito da un altro tang.

Aprii la porta e guardai dentro.

Era solo. Mi dava di schiena, ma sentì la porta aprirsi e si girò rapidamente. Indossava una lunga toga color porpora e bilanciava un coltello nella destra. Aveva un grosso cerotto sulla nuca.

— Buonasera, Hasan.

Al suo fianco si trovava una fila di coltelli, e lui aveva appeso un bersaglio sul muro opposto. Due lame erano già piantate nel bersaglio: una nel centro e l’altra a circa venti centimetri di distanza. Fosse stato un orologio, avrebbe segnato le nove.

— Buonasera — disse lentamente. Poi, dopo averci pensato, chiese: — Come stai?

— Oh, bene. Ero venuto a farti la stessa domanda. Come va la testa?

— Il dolore è grande, ma passerà.

Mi chiusi la porta alle spalle.

— Devi aver avuto una bella allucinazione, ieri notte.

— Sì. Mister Dos Santos mi ha raccontato che combattevo coi fantasmi. Ma non ricordo.

— Non stavi certo fumando quella che il nostro dottor Emmet chiamerebbe Cannabis sativa, è chiaro.

— No, Karagee. Fumavo uno strige-fleur che aveva bevuto sangue umano. L’ho trovato vicino al Vecchio Posto di Costantinopoli, e ho essiccato con molta cura i suoi fiori. Una vecchia m’ha detto che mi avrebbe fatto vedere il futuro. Mentiva.

— … E il sangue di quel vampiro induce alla violenza? Be’, ecco un’altra cosa da tener presente. En passant, noto che mi hai chiamato Karagee. Vorrei che non lo facessi. Il mio nome è Nomikos, Conrad Nomikos.

— Sì, Karagee. Mi ha sorpreso vederti. Pensavo che fossi morto da parecchio tempo, quando la tua imbarcazione esplose nella baia.

— È Karagee che è morto. Non hai detto a nessuno che gli somiglio, no?

— No. Non faccio discorsi inutili.

— È una buona abitudine.

Traversai la stanza, scelsi un coltello, lo soppesai, e lo lanciai, facendolo finire ad una ventina di centimetri dal centro, sulla destra.

— È da molto che lavori per Mister Dos Santos? — gli chiesi.

— Da circa un mese — rispose.

Lanciò il suo coltello. Si piantò dieci centimetri sotto il centro.

— Sei la sua guardia del corpo, eh?

— È esatto. Faccio la guardia anche al tipo blu.

— Dos Santos dice di temere un attentato alla vita di Myshtigo. C’è davvero pericolo, o è solo una misura di sicurezza?

— Sono possibili entrambe le cose, Karagee. Non lo so. Mi paga solo per fare la guardia.

— Se ti pagassi di più, mi diresti chi devi uccidere?

— Sono stato assunto solo per fare la guardia, ma anche se fosse altrimenti non te lo direi.

— Non lo pensavo, infatti. Torniamo ai coltelli.

Andammo a staccare le lame dal bersaglio.

— Senti, se per caso fossi io quello che devi uccidere, il che è possibile, perché non sistemiamo subito la faccenda? — gli proposi. — Abbiamo entrambi due pugnali. Quello che uscirà vivo dalla stanza dirà che l’altro l’ha attaccato, e che s’è trattato d’auto-difesa. Non ci sono testimoni. La notte scorsa ci hanno visti tutti e due ubriachi o sovreccitati.

— No, Karagee.

— No cosa? No, non sono io? O no, non vuoi farlo a questo modo?

— Potrei dire di no, non sei tu. Ma non sapresti se sto dicendo la verità o una bugia.

— È vero.

— Potrei dire che non voglio farlo a questo modo.

— È vero?

— Non voglio dirlo. Ma per darti la soddisfazione d’una risposta, senti questa: se volessi ucciderti, non ci proverei con un coltello, e nemmeno mi metterei a fare a pugni o lottare con te.

— Perché mai?

— Perché molti anni fa, quand’ero un ragazzo, lavoravo nella zona di Kerch: accudivo alle tavole dei ricchi vegani. Allora non mi conoscevi, ero appena arrivato da Pamir. Tu e il tuo amico poeta giungeste a Kerch.

— Adesso mi ricordo. Sì… I genitori di Phil erano morti quell’anno; erano miei buoni amici, e avevo promesso di portare Phil all’università. Ma c’era un vegano che gli aveva rubato la sua prima donna, e se l’era portata a Kerch. Sì, il buffone. Ho dimenticato il nome.

— Era Thrilpai Ligo, il pugile shajadpa, e sembrava una montagna alla fine d’un’immensa pianura: grande, inamovibile. Combatteva con i cesti vegani: quelle cinghie di cuoio con dieci chiodi appuntiti tutt’attorno, a mani aperte…

— Sì, ricordo…

— Non avevi mai tirato di shajadpa prima, ma combattesti con lui per la ragazza. Si radunò una gran folla di vegani e di ragazze terrestri, e io me ne stavo su un tavolo a guardare. Dopo un minuto la tua faccia era tutta coperta di sangue. Quello cercava d’infilzarti gli occhi coi chiodi, e tu continuavi a scuotere la testa. Allora avevo quindici anni, ed avevo ucciso appena tre uomini e pensavo che tu saresti morto perché non l’avevi nemmeno toccato. E poi la tua mano destra gli arrivò addosso come un martello da un quintale, talmente veloce! Lo colpisti nel centro di quel doppio osso che i blu hanno nel petto, nel loro punto debole, e lo frantumasti come un uovo. Io non ci sarei mai riuscito, ne sono sicuro; ed ecco perché ho paura delle tue mani e delle tue braccia. Più tardi seppi che avevi ucciso anche un pipiragno. No, Karagee, se dovessi farti fuori mi terrei distante.

— È passato tanto tempo… Non credevo che qualcuno se ne ricordasse.

— Vincesti la ragazza.

— Sì. Non ricordo il nome.

— Ma non la restituisti al poeta. La tenesti per te. Ecco perché probabilmente ti odia.

— Phil? Quella ragazza? Non mi ricordo nemmeno che faccia avesse.

— Lui non ha mai dimenticato. Per questo penso che ti odi. Io riesco a sentire l’odio, a fiutare le sue radici. Gli hai rubato la sua prima donna. L’ho visto da me.