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— È stata un’idea della ragazza.

— … E lui diventa vecchio e tu resti giovane. È molto brutto, Karagee, quando un amico ha motivi per odiare un amico.

— Sì.

— E non risponderò alle tue domande.

— È possibile che tu sia pagato per uccidere il vegano.

— È possibile.

— Perché?

— Ho detto solo che è possibile, non che è la verità.

— Allora ti farò ancora un’altra domanda, e poi la piantiamo lì. Che bene verrebbe dalla morte del vegano? Il suo libro potrebbe essere un grande passo avanti nelle relazioni umani-vegani.

— Non so che bene o che male ne verrebbe, Karagee. Facciamo ancora qualche tiro coi coltelli.

Tirammo. Presi la mira, bilanciai le armi, e ne piantai due giuste nel bersaglio. Poi Hasan infilzò altri due coltelli tra i miei. Il secondo produsse uno stridente rumore metallico, mentre vibrava contro uno dei miei.

— Ti dirò una cosa — dissi, mentre li staccavamo dal bersaglio. — Sono il capo della spedizione, e responsabile della sicurezza dei partecipanti. Farò da guardia anch’io al vegano.

— Eccellente, Karagee. Ha bisogno di protezione.

Rimisi i coltelli nel contenitore e mi diressi verso la porta.

— Partiremo domattina alle nove, lo sai. Un convoglio di Lance ci aspetterà nella prima sezione, dalla parte dell’Ufficio.

— Sì. Buonanotte, Karagee.

— … E chiamami Conrad.

— Sì.

Aveva un coltello pronto per il bersaglio. Chiusi la porta e cominciai a ripercorrere il corridoio. Quasi subito sentii un altro tang, e sembrava molto più vicino di tutti i precedenti. Continuò ad echeggiarmi attorno, lì nel corridoio.

Mentre le sei grandi Lance sorvolavano l’oceano in direzione dell’Egitto rivolsi i miei pensieri dapprima a Kos e Cassandra; e poi, con notevole difficoltà, li proiettai in avanti sulla terra di sabbia: il Nilo, coccodrilli mutanti, e diversi Faraoni morti che i miei attuali progetti stavano disturbando. («La morte arriva su ali veloci a colui che sfida…» ecc). E poi pensai all’umanità, rannicchiata sulla colonia di Titano, occupata negli Uffici Terrestri, prostituita su Taler e Bakab, abulica su Marte, arrangiata alla bell’e meglio su Rylpah, Divbah, Litan e altre due dozzine di mondi dell’Unione Vegana. Poi pensai ai vegani.

Quelle creature dalla pelle blu e i nomi buffi e le fossette come pustole di vaiolo ci avevano dato ospitalità quando avevamo freddo, ci avevano nutriti quando eravamo affamati. Già. Apprezzavano il fatto che le nostre colonie su Marte e Titano avessero sofferto di circa un secolo di penosa e forzata autosufficienza, dopo l’incidente dei Tre Giorni, prima che riuscissimo a costruire un veicolo interstellare decente. Come i curculionidi del lino (il paragone me l’ha suggerito Emmet) stavamo cercando una casa nuova, perché avevamo esaurito le risorse della vecchia. Ma i vegani avevano preso in mano l’insetticida? No. Dato che sono una razza tanto antica e saggia, ci avevano permesso di insediarci nei loro mondi, di vivere e lavorare nelle loro città di terra, nelle loro città di mare. Perché anche una cultura avanzata come quella dei vegani aveva bisogno di lavoro manuale (la solita vecchia storia del pollice opponibile). Le macchine non possono sostituire dei buoni domestici, fare la guardia come si deve, coltivare a puntino un giardino, pescare in alto mare, compiere lavori difficili e pericolosi sottoterra e sott’acqua, fare da buffoni per un’altra razza. D’accordo, la presenza di abitazioni umane abbassa il valore delle adiacenti proprietà vegane, ma d’altronde gli umani offrono con il loro contributo al benessere dei vegani, un’ampia ricompensa per la svalutazione.

Il che mi riportò alla Terra. I vegani non avevano mai visto prima una civiltà completamente devastata, sicché erano affascinati dal nostro pianeta natale. Abbastanza affascinati da tollerare il nostro assente governo di Taler. Abbastanza da comperare i biglietti dei giri turistici terrestri per vedere le rovine. Persino abbastanza da acquistare appezzamenti di terreno e costruire nuove abitazioni. C’è una certa dose di fascino in un pianeta che sembra un museo vivente. (Cos’era che James Joyce diceva di Roma?). Comunque, la morta Terra regala ancora ai suoi sfortunati pronipoti una piccola ma apprezzabile rendita ad ogni anno fiscale vegano. E questa è la ragione per cui esistono l’Ufficio, Lorel, George, Phil, e tutto il resto.

Magari anch’io, più o meno.

In basso, l’oceano era un tappeto grigio-azzurro che ci veniva portato continuamente via da sotto i piedi. Poco per volta il continente lo sostituì. Filavamo a tutta velocità verso Nuova Cairo.

Ci posammo all’esterno della città. Non esiste un vero aeroporto. Semplicemente scendemmo su un campo vuoto senza chiedere nessun permesso, e lasciammo George di guardia.

Vecchia Cairo è ancora calda, ma la gente con cui si può fare affari vive quasi tutta a Nuova Cairo, e così le cose erano okay per la nostra spedizione. Myshtigo voleva vedere la moschea di Kait Bey nella Città dei Morti, che era sopravvissuta ai Tre Giorni; comunque gli bastò che lo portassi a sorvolare il posto sulla mia Lancia. Mentre io m’abbassavo lentamente, in circolo, lui continuava a guardare e a scattare fotografie. Tra i monumenti, quelli che gli interessavano sul serio erano le piramidi e Luxor, Karnak, e la Valle dei Re e la Valle delle Regine.

Fu un bene limitarci ad osservare la moschea dall’alto. Sotto di noi correvano forme nere, che si fermavano solo per tirare sassi alla nave.

— Cosa sono? — chiese Myshtigo.

— Gente Calda — gli dissi. — Specie d’esseri umani. Variano in grandezza, forma e crudeltà.

Dopo qualche giro si ritenne soddisfatto, e ritornammo al campo.

Così, atterrando di nuovo sotto un sole dardeggiante, mettemmo al sicuro quell’ultima Lancia e sbarcammo. Prendemmo a muoverci tra sabbia e pavimentazioni divelte, in uguali proporzioni. Eravamo in otto: due assistenti temporanei, io, Myshtigo, Dos Santos e Parrucca Rossa, Ellen, Hasan. Ellen aveva deciso all’ultimo momento d’accompagnare il marito nel viaggio. Su entrambi i lati della strada c’erano campi di canne da zucchero, alte e snelle. In un momento ce li eravamo lasciati alle spalle, e attraversavamo i bassi edifici periferici della città. La strada s’allargò. Qua e là una palma gettava un po’ d’ombra. Due bambini dai grandi occhi castani alzarono lo sguardo quando passammo. Stavano osservando una stanca mucca a sei zampe che faceva girare una grande ruota sakieh, comportandosi come qualsiasi altra mucca che abbia mai fatto girare una grande ruota sakieh da che mondo è mondo, solo che questa lasciava più impronte.

Il mio supervisore per quell’area, Rameses Smith, ci aspettava alla locanda. Era un uomo massiccio e corpulento, e la sua faccia dorata era chiusa in una fittissima, delicata rete di rughe; e aveva due occhi maledettamente tristi, ma il suo continuo ridacchiare lo faceva sembrare subito più allegro.

Sedemmo a bere birra nel salone principale della locanda, mentre aspettavamo George. Avevamo mandato guardie del luogo a dargli il cambio.

— Il lavoro procede bene — m’informò Rameses.

— Ottimo — dissi, abbastanza compiaciuto che nessuno m’avesse chiesto cosa fosse «il lavoro». Volevo fare una sorpresa. — Come stanno sua moglie e i bambini?

— Stanno bene — dichiarò.

— Il nuovo nato?

— È sopravvissuto, e senza difetti — rispose con orgoglio. — Ho mandato mia moglie in Corsica fino al momento del parto. Ho qui una sua fotografia.

Finsi di studiarla, producendo i soliti borbottii di apprezzamento di rito. Poi chiesi: — Parlando di fotografie, avete bisogno di altro materiale per le riprese?

— No, siamo bene attrezzati. Va tutto bene. Quando vuole vedere il lavoro?