— Che forza! La sento ancora! — gridò Dos Santos. — Olé!
— È un movimento sismico — disse George. — Anche se non sono un geologo…
— Il terremoto! — strillò sua moglie, lasciando cadere un dattero non pastorizzato con cui stava imboccando Myshtigo.
Non c’era ragione di correre, non c’era posto dove correre. Non c’era nulla nelle vicinanze che ci potesse crollare addosso. Il terreno era piatto e completamente spoglio. Così restammo seduti a sobbalzare in su e in giù, e a venire ogni tanto sbattuti forte a terra. I fuochi fecero cose sorprendenti.
Scaduto il tempo di programmazione Rolem si spense, e Hasan venne a sedere vicino a George e a me. Le scosse durarono quasi un’ora, e ritornarono con meno forza diverse altre volte, durante la notte. Cessata la prima ondata, prendemmo contatto con il porto. Ci dissero che gli strumenti indicavano l’epicentro del fenomeno ad una notevole distanza da noi, a nord.
Una bella distanza, accidenti.
… Nel Mediterraneo.
Nell’Egeo, per essere più precisi.
Mi sentii male, e stetti male.
Tentai di parlare con Kos.
Niente.
La mia Cassandra, la mia adorata signora, la mia principessa… Dov’era? Per due ore cercai di scoprirlo. Poi il porto mi chiamò.
Era la voce di Lorel, non quella di un qualsiasi operatore di guardia.
— Uh… Conrad, non so come dirti esattamente quello che è successo…
— Parla — dissi, — e fermati quando hai finito.
— Un satellite è passato dalle tue parti una dozzina di minuti fa — gracchiò tra le scariche. — Diverse isole dell’Egeo non erano più presenti nelle immagini che trasmetteva…
— No — dissi.
— Temo che Kos fosse una di quelle.
— No — ripetei.
— Mi spiace — continuò, — ma sembra che le cose stiano così. Non so che altro dire…
— Mi basta — dissi. — È tutto. È quanto. Arrivederci. Parleremo più tardi. No! Credo… No!
— Aspetta! Conrad!
Allora impazzii.
I pipistrelli, liberati dal ventre della notte, mi svolazzavano attorno. Stesi avanti la destra e ne uccisi uno mentre volava nella mia direzione. Aspettai qualche secondo e ne uccisi un altro. Poi raccolsi con entrambe le mani un grosso sasso e stavo per fracassare la radio quando George mi mise una mano sulla spalla, e allora lasciai cadere il sasso e scrollai via la sua mano e lo colpii sulle labbra col dorso della sinistra. Non so cosa successe di lui, ma mentre mi piegavo per tornare a raccogliere il sasso udii dietro di me il rumore di passi. Mi piegai su un ginocchio e mi ci bilanciai sopra, raccattando una manciata di sabbia per gettarla negli occhi di qualcuno. Erano tutti lì: Myshtigo e Parrucca Rossa e Dos Santos, Rameses, Ellen, tre impiegati statali indigeni, Hasan, e s’avvicinavano in gruppo. Qualcuno gridò «Separiamoci!» quando videro la mia faccia, e sparirono.
Allora diventarono tutti quelli che avevo odiato; potevo sentirlo. Vedevo altri visi, sentivo altre voci. Chiunque avessi mai conosciuto, odiato, desiderato d’uccidere, ucciso, era risorto lì davanti al fuoco, e soltanto il bianco dei loro denti si lasciava distinguere nell’ombra che s’addensava sui loro volti mentre sorridevano e mi venivano incontro, reggendo ciascuno in mano una condanna diversa, e morbide, persuasive parole sulle loro labbra; così gettai la sabbia sul più vicino e gli volai addosso.
Il mio pugno lo fece cadere all’indietro, e poi due egiziani mi furono addosso da entrambi i lati.
Li scrollai via, e con l’angolo del mio occhio più gelido vidi un enorme arabo stringere in mano qualcosa che sembrava un avocado nero. Lo stava agitando verso di me, così mi chinai verso il basso. Quello veniva diritto nella mia direzione: gli diedi una botta nello stomaco, e lo feci cadere disteso. Poi i due uomini che mi ero tolto di torno mi furono di nuovo addosso. Una donna stava gridando in distanza, da qualche parte, ma non riuscivo a vederla.
Mi liberai il braccio destro e lo usai per picchiare qualcuno, e l’uomo cadde e un altro prese il suo posto. Diritto davanti a me un uomo blu tirò una pietra che mi colpì sulla spalla, ed ebbe l’unico effetto di rendermi ancor più furioso. Sollevai nell’aria un corpo che scalciava e lo scaraventai contro un altro, poi colpii qualcuno col pugno. Mi diedi una scrollata. Il mio mantello era lacero e sozzo; lo strappai del tutto e me lo cavai di dosso.
Mi guardai attorno. Avevano smesso di venirmi incontro, e non era giusto. Non era giusto che la smettessero proprio allora, quando avevo tanta voglia di spaccare tutto. Così raccolsi l’uomo che giaceva ai miei piedi e lo riscaraventai per terra. Poi lo raccolsi di nuovo e qualcuno gridò: — Ehi! Karaghiosis! — e cominciò ad insultarmi in un greco approssimativo. Lasciai ricadere l’uomo sul terreno e mi voltai.
E là, davanti al fuoco, c’erano due di loro: uno alto con la barba, l’altro tozzo e pesante e calvo, fatto d’una miscela di stucco e terra.
— Il mio amico dice che ti farà a pezzi, greco! — gridò quello alto, facendo qualcosa alla schiena dell’altro.
Mi mossi verso di loro e l’uomo di stucco e fango mi saltò addosso.
Mi colse di sorpresa, ma mi ripresi in fretta e lo colpii sotto le ascelle e lo feci volare da parte. Ma anche lui si rimise in piedi velocemente come me, e ritornò all’attacco e mi diede un colpo dietro il collo con la mano. Gli restituii la pariglia, afferrandogli poi il gomito. Restammo a lottare abbracciati, e accidenti se era forte.
Poiché era forte, cominciai a cambiare tattica, per misurare la sua resistenza. Era anche veloce: rispondeva ad ogni mia mossa quasi nello stesso momento in cui la pensavo.
Spinsi di colpo in alto le braccia tra le sue con tutta la forza che avevo, e indietreggiai appoggiandomi sulla gamba rinforzata. Divisi e liberi per un momento, orbitammo l’uno attorno all’altro, cercando entrambi l’apertura nella difesa del nemico.
Tenevo basse le braccia, ed ero tutto piegato in avanti a causa della sua statura ridotta. Per un momento le mie braccia si trovarono troppo vicine ai fianchi, e lui mi venne contro con una velocità che non avevo visto in nessun altro, mai, e mi chiuse il corpo in una morsa che mi fece uscire l’anima dai pori e mi causò un dolore tremendo ai fianchi.
Le sue braccia continuavano a stringermi, e sapevo che in poco tempo mi avrebbe spezzato la schiena se non fossi riuscito a liberarmi. Strinsi le mani a pugno e gliele ficcai contro il ventre e spinsi. La sua stretta divenne più dura. Feci un passo indietro e sollevai in avanti entrambe le braccia. Le mie mani si levarono più alte tra i nostri due corpi e appoggiai il pugno destro contro il palmo della mano sinistra e li strinsi assieme e tirai in alto le braccia. La testa prese a girarmi mentre le braccia si sollevavano, e mi sentii le reni in fiamme. Poi tesi tutti i muscoli della schiena e delle spalle e sentii la forza scendermi giù per le braccia fino alle mani, e le scaraventai su verso il cielo: il suo mento si trovava sulla loro traiettoria, ma non le fermò.
Le braccia mi volarono sopra la testa e lui cadde all’indietro. La forza di quell’enorme colpo che gli era arrivato sul mento avrebbe dovuto spezzare il mento di qualsiasi uomo, e in effetti anche lui era caduto per terra.
Ma immediatamente si rimise in piedi, e seppi allora che non era un mortale, ma una di quelle creature non nate da donna: invece, ora lo sapevo, era stato generato come Anteo dal ventre della Terra stessa.
Mi scagliai con le mani sulle sue spalle, e lui cadde in ginocchio. Poi lo colpii sulla gola e mi portai alla sua destra e col ginocchio sinistro cercai di spezzargli la schiena. Mi tesi in avanti, appoggiandomi sulle sue cosce e spalle, tentando di finirlo.