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— Il mio Bortan è morto da tanto tempo che non riuscirebbe nemmeno a masticare le proprie ossa, se gli capitasse di scavarle dal suolo in un’altra incarnazione.

— Anch’io pensavo così. Ma due giorni dopo che tu ripartisti dalla tua ultima visita, si precipitò nella mia baracca. Era come se avesse seguito le tue tracce per metà della Grecia.

— Sei sicuro che fosse Bortan?

— C’è mai stato un altro cane con le dimensioni d’un piccolo cavallo, squame poderose su entrambi i fianchi, e mascelle come una trappola per orsi?

— No, non credo. Probabilmente è per questo che la razza è scomparsa. I cani avevano bisogno di corazze dure per continuare a vivere con la gente, e non le hanno sviluppate abbastanza in fretta. Se è ancora vivo, è probabilmente l’ultimo cane della Terra. Lui ed io siamo stati cuccioli assieme, lo sai, tanto tempo fa che è doloroso il solo pensarci. Quel giorno che scomparve mentre stavamo cacciando pensai che gli fosse successo qualcosa. Lo cercai, poi decisi che era morto. Era già incredibilmente vecchio, a quell’epoca.

— Forse è rimasto ferito, e ha continuato a vagare, per anni. Ma era sempre lui e ha ritrovato le tue tracce, quell’ultima volta. Quando vide che te n’eri andato latrò, e se ne andò di nuovo a cercarti. Da allora non lo abbiamo più visto. Talvolta, però, a tarda notte, odo il suo grido sulle colline…

— Quel pazzo d’un bastardo dovrebbe sapere che non bisogna preoccuparsi troppo di niente.

— I cani erano strani.

— Già, erano strani.

E poi il vento della notte, freddo per essere passato tra le arcate del tempo, giocò ad inseguirmi. Mi toccò gli occhi.

Che, stanchi, si chiusero.

La Grecia trabocca di leggende, è piena di pericoli. Diverse zone del continente nei pressi dei Posti Caldi sono storicamente pericolose. Questo succede perché l’Ufficio si occupa in teoria di tutta la Terra, ma in pratica cura solo le isole. Gli impiegati dell’Ufficio sul continente assomigliano molto alle guardie di finanza che nel ventesimo secolo controllavano certe zone di collina: è gente che merita tutte le critiche che vengono loro rivolte. Le isole hanno subito meno danni del resto del mondo durante i Tre Giorni; di conseguenza, quando i Talenti decisero che ci potevamo permettere uno straccio d’amministrazione, furono scelte come base per ospitare le sedi dei distaccamenti dell’Ufficio. Storicamente, gli abitanti del continente si sono sempre opposti a questo stato di cose. Nelle regioni attorno ai Posti Caldi, però, i nativi non sono sempre del tutto umani. Il che mescola l’antagonismo storico con modi anormali di comportamento. Per questo la Grecia è piena. Avremmo potuto circumnavigare la costa fino a Volos. Avremmo potuto volare a Volos, o da qualsiasi altra parte, per questo. Myshtigo invece volle fare una passeggiata da Lamia in avanti, fare una passeggiata e godersi il piacere della leggenda e dello scenario inusitato. Per questo lasciammo le Lance a Lamia. Per questo arrivammo a piedi a Volos.

Per questo incontrammo la leggenda.

Ad Atene dissi arrivederci a Giasone. Lui intendeva circumnavigare la costa. Saggio.

Phil aveva insistito per prendere parte alla passeggiata, invece di volare avanti e incontrarci lungo il percorso. Anche questo fu un bene, forse, a modo suo, quasi…

La strada per Volos incontra una vegetazione talora fittissima, talora rada. Oltrepassa enormi macigni, qualche pascolo stentato, agglomerati di capanne, campi di papaveri; attraversa piccoli corsi d’acqua, s’attorciglia sulle colline, talora le attraversa, s’allarga e si restringe senza cause apparenti.

Era ancora mattino presto. Il cielo era uno specchio azzurro, perché la luce del sole sembrava venire da tutt’intorno. Nei punti in ombra c’era ancora un po’ di rugiada sull’erba e sulle foglie più basse degli alberi.

Fu in un’interessante radura lungo la strada per Volos che incontrai un mio vecchio amico.

Quel posto era un santuario di qualche specie, nei Veri Tempi Antichi. Ci venivo molto spesso in gioventù, perché mi piaceva una cosa che lì si trova in abbondanza: immagino che voi la chiamereste «pace». A volte ci avevo incontrato i mezzi-uomini o i non-uomini, o avevo sognato dei bei sogni, o avevo trovato vecchie reliquie o teste di statue, o cose del genere, che potevo vendere a Lamia o Atene.

Non c’è un sentiero che ci arrivi. Dovete sapere dove si trova. Non li avrei portati lì se Phil non fosse stato con noi, e sapevo che a lui piace tutto quello che sa di mistero, di significati reconditi, di sguardi inusitati sull’oscuro passato, eccetera.

Circa un miglio fuori dalla strada, attraversata una piccola foresta contenta del suo gran disordine di verde e d’ombra e delle pietre sparse a caso, prendete d’improvviso a scendere, vi trovate la strada bloccata da un fitto boschetto, lo superate, poi scoprite una parete rocciosa liscia. Se vi accucciate, vi tenete vicini alla parete, e svoltate sulla destra, sbucate in una radura dove è sempre meglio fermarsi prima di proseguire.

C’è una discesa breve e ripida, e sul fondo una spianata a forma d’uovo, lunga una cinquantina di metri, larga venti, che termina infilandosi in un’apertura nella roccia; all’estremità si trova una caverna poco profonda, di solito vuota. Alcune pietre sprofondate nel terreno, di forma quasi quadrata, sono disseminate attorno in maniera apparentemente casuale. Viti selvagge crescono lì attorno, e nel centro si trova un albero enorme ed antico, le cui fronde fanno da ombrello a quasi tutto il posto, tenendolo fresco e buio ventiquattr’ore su ventiquattro. L’albero rende difficile sbirciare, anche se ci si trova nella radura.

Ma potevamo vedere, nel centro, un satiro che si puliva il naso.

Vidi la mano di George posarsi sul calcio della pistola. Lo presi per la spalla, lo guardai, scossi la testa. Lui scrollò le spalle, annuì, e lasciò ricadere la mano.

Estrassi dalla cintura il flauto da pastore che mi ero fatto dare da Giasone. Accennai agli altri d’accucciarsi e restare dove si trovavano. Feci qualche passo in avanti e mi portai la siringa alle labbra.

Le prime note furono semplici tentativi. Era passato troppo tempo da che avevo suonato il flauto.

Gli orecchi del satiro si tesero, e lui si guardò attorno. Fece rapidi movimenti in tre diverse direzioni; come uno scoiattolo disturbato, incerto su quale albero salire.

Poi rimase lì a fremere mentre io accennavo un vecchio motivo e ne riempivo l’aria.

Continuai a suonare, ricordando, ricordando i flauti, le musiche, i toni aspri e i toni dolci, e le cose pazzesche che ho sempre conosciuto. Mi ritornò tutto dentro mentre stavo lì a suonare per quella piccola creatura dai gambali di pelo ispido: i movimenti delle dita e il controllo del fiato, i piccoli crescendo, il dolore della musica, le cose che solo un flauto può veramente dire. Nella città non potevo suonare, ma d’improvviso fui di nuovo me stesso, e vidi facce tra le foglie e sentii il rumore di zoccoli.

Mi mossi in avanti.

Come in un sogno, mi accorsi d’essermi appoggiato con la schiena all’albero, e loro m’erano tutti intorno. S’appoggiavano su uno zoccolo e sull’altro, non stavano mai quieti, e io suonavo per loro come avevo già fatto tante volte, anni addietro, senza sapere se fossero le stesse creature che m’avevano udito allora; senza nemmeno che me ne preoccupassi. Saltellavano attorno a me. Ridevano con denti bianchissimi, e i loro occhi danzavano, e facevano girotondo, forando l’aria coi loro corni, sollevando le loro zampe da capri dal suolo, sporgendosi in avanti, saltando in aria, pestando la terra.

Mi fermai, e abbassai il flauto.

Non era un’intelligenza umana quella che mi spiava attraverso quegli occhi selvatici e neri, mentre loro si trasformavano in statue, lì immobili a fissarmi.

Sollevai di nuovo il flauto, lentamente. Questa volta suonai l’ultima canzone che avevo composta. La ricordavo così bene! Era una specie di canto funebre che avevo intonato la notte in cui avevo deciso che Karaghiosis doveva morire.