— Non sento niente.
— Sentirai.
Dopo un momento scese giù dal cielo su Kos, atterrando sulla pista che avevo preparata alla fine del portico. Mi alzai in piedi e feci alzare anche lei, mentre l’aereo ronzava piano. Una Lancia Radson: una conchiglia marina, sei metri di riflessi e trasparenze; fondo piatto, naso smussato.
— C’è qualcosa che vuoi prendere con te? — chiese lei.
— Sai cosa, ma non posso.
La Lancia si posò e il suo fianco s’apri. Il pilota, che portava occhiali da protezione, girò la testa.
— Ho la sensazione — disse lei, — che tu ti stia cacciando in un guaio.
— Ne dubito, Cassandra.
Nessuna pressione, nessuna osmosi potranno mai rimettere al suo posto la costola che Adamo perdette un giorno, grazie a Dio.
— Arrivederci, Cassandra.
— Arrivederci, mio Kallikanzaros.
E salii sulla Lancia e balzai su nel cielo, mormorando una preghiera ad Afrodite. Sotto di me, Cassandra faceva gesti di saluto. Sopra di me, il sole rafforzava la sua rete di luce. Ci dirigemmo verso ovest, e qui andrebbe bene un armonioso passaggio, ma non c’è. Da Kos a Port-au-Prince furono quattro ore, acqua grigia, stelle pallide, e io pazzo. Quelle luci colorate…
La sala era piena di gente, una grande luna tropicale riluceva alta nel cielo, e se potevo vedere entrambe le cose era perché ero finalmente riuscito a trasportare Ellen Emmet sul balcone e le porte erano aperte e bloccate in tale posizione.
— Di nuovo redivivo — mi salutò lei, sorridendo lievemente. — È passato quasi un anno, e nemmeno due righe di saluti da Ceylon per sapere se stavo bene.
— Sei stata malata?
— Potevo anche esserlo.
Era piccola e, come tutti coloro che odiano il giorno, aveva una carnagione crema sotto il suo simicolor. Mi ricordava un’elaborata bambola meccanica con un meccanismo difettoso: una grazia fredda, e la netta propensione a colpire la gente negli stinchi quando meno se l’aspettavano; e aveva mucchi e mucchi di capelli arancio-scuri, raccolti in una specie di nodo gordiano che mi scoraggiava mentre tentavo mentalmente di scioglierlo; i suoi occhi erano di qualunque colore il suo demone della scelta decidesse per quel particolare giorno; adesso me ne dimentico, ma sono sempre blu, in fondo in fondo. Qualunque cosa indossasse era verde-marrone, e ce n’era abbastanza per ricoprirla tutta un paio di volte e farla sembrare un paccone informe, il che era proprio una colossale bugia di sarto se mai ce n’è stata una, a meno che non fosse di nuovo incinta, del che dubitavo.
— Be’, stammi bene, allora — dissi, — se proprio hai bisogno dei miei auguri. Non sono stato a Ceylon. Sono rimasto nel Mediterraneo per quasi tutto il tempo.
Nell’interno risuonarono degli applausi. Ero felice di trovarmi fuori. I suonatori avevano appena terminato la Maschera di Demetra di Graber, che lui aveva scritto in pentametri in onore del nostro ospite vegano, ed era durata due ore, ed era brutta. Phil era molto ben educato e mezzo calvo, e faceva bene la sua parte, ma quando l’avevamo preso con noi avevamo una maledetta fretta di trovare un laureato. Aveva la mania di Rabindranath Tagore e Chris Isherwood, di scrivere poemi epico-metafisici spaventosamente lunghi, di parlare continuamente dell’Illuminismo, e di fare sulla spiaggia i suoi esercizi quotidiani di respirazione. Per il resto era abbastanza decente, come essere umano.
L’applauso si spense, e udii i tintinnii vetrosi della musica della telinstra e il rumore delle conversazioni che ricominciavano.
Ellen s’appoggiò all’indietro sulla ringhiera.
— Ho sentito che ti sei sposato, in questi giorni.
— Vero — convenni, — e sono anche abbastanza cotto. Perché mi hanno chiamato indietro?
— Chiedilo al capo.
— Gliel’ho chiesto. Ha detto che dovrò fare da guida. Ma quello che voglio sapere, accidenti, è perché? La vera ragione. Ci ho pensato, e la cosa diventa sempre più incomprensibile.
— E come faccio io a saperlo?
— Tu sai tutto.
— Soverchia stima di me, caro. Com’è lei?
— Una sirena, forse. Perché?
Lei scrollò le spalle.
— Pura curiosità. Agli altri come dici che io sono?
— Non vado in giro a raccontare a nessuno come sei tu.
— Mi sento insultata. Devo pur assomigliare a qualcuno, a meno che io sia unica.
— Ecco, appunto, sei unica.
— E allora perché non m’hai presa con te l’anno scorso?
— Perché a te piace la gente e hai bisogno d’aver attorno una città. Puoi esser felice solo qui al Porto.
— Ma non sono felice qui al Porto.
— Sei meno infelice qui al Porto di quanto lo saresti da qualsiasi altra parte del pianeta.
— Avremmo potuto tentare — disse, e mi girò le spalle per guardare giù in basso le luci della baia. — Sai una cosa — prosegui dopo un po’, — sei talmente brutto che sembri attraente. Dev’essere questo.
Stavo per toccarla, ma mi fermai a pochi centimetri dalle sue spalle.
— Sai — continuò lei, con voce piatta, priva d’emozioni, — sei un incubo che cammina come un uomo.
Lasciai ricadere le mani e feci una risatina sorda.
— Lo so — dissi. — Sogni d’oro.
Feci per andarmene e lei m’afferrò per la manica.
— Aspetta!
Le fissai la mano, poi gli occhi, poi di nuovo la mano. Mi lasciò andare.
— Sai che non dico mai la verità — disse. Poi rise di quel suo piccolo riso fragile. — … E ho pensato a qualcosa che dovresti sapere su questo viaggio. C’è qui Donald Dos Santos, e credo che verrà anche lui.
— Dos Santos? È ridicolo.
— Adesso è su nella libreria, con George e un pezzo grosso arabo.
Il mio sguardo la oltrepassò e si fissò sul paesaggio della baia sottostante, dove le ombre, come i miei pensieri, si muovevano in strade piccole, scure e pendenti.
— Un pezzo grosso arabo? — chiesi, dopo un po’. — Mani sfregiate? Occhi gialli? Si chiama Hasan?
— Sì, è esatto. L’hai già incontrato?
— Ha fatto qualche lavoro per me in passato — confermai. E così sorrisi, anche se il sangue mi si stava raffreddando, perché non mi piace che la gente sappia quello che sto pensando.
— Stai sorridendo — disse lei. — Cosa pensi?
È fatta così.
— Sto pensando che tu prendi le cose più seriamente di quanto io credessi.
— Che idiozia. T’ho detto un mucchio di volte che sono una bugiarda spaventosa. In effetti l’ho ripetuto solo un secondo fa, e mi riferivo ad uno scontro poco importante in una grande guerra. E hai ragione a dire che sono meno infelice qui che da qualsiasi altra parte della Terra. Così forse potresti parlare a George, mandarlo a lavorare su Taler, o Bakab. Forse? Eh?
— Certo — dissi. — Sicuro. Ci puoi scommettere. Proprio così. Dato che tu ci provi da dieci anni… Come va la sua collezione d’insetti, in questi giorni?
Lei fece un mezzo sorriso.
— Cresce — replicò, — a passi da gigante. Ci sono anche api e pidocchi, e alcuni di questi pidocchi sono radioattivi. Io gli dico: «George, perché non fai qualcosa con qualche altra donna invece di passare tutto il tempo con questi insetti?». Ma lui si limita a scrollare la testa, e ha un’aria così assorta. Allora gli dico: «George, un giorno o l’altro uno di questi pidocchi ti pungerà e ti renderà impotente. E allora cosa farai?». Al che lui mi spiega che non può succedere, e mi dà ragguagli sulle tossine degli insetti. Forse è in realtà una grossa cimice travestita. Penso che ci trovi una specie di piacere sessuale a guardarli agitarsi in quei contenitori. Non so cos’altro…
Allora mi girai e guardai dentro la stanza, perché il suo viso non era più il suo viso. Quando la sentii ridere un momento dopo, tornai a girarmi e le strinsi la spalla.