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E fu quella sera che successe.

Ci coricammo attorno a un fuoco. Oh, era un fuoco straordinario, che sbatteva le sue ali splendenti contro la notte, ci riscaldava, sapeva di legna, faceva salire nell’aria una traccia di fumo… Delizioso.

Hasan stava ripulendo il suo fucile da caccia col tamburo d’alluminio. Aveva il calcio di plastica, ed era davvero leggero e maneggevole.

Mentre lui ci lavorava attorno, quello si spinse in avanti, si mosse in circolo, e si puntò diritto contro Myshtigo.

L’aveva fatto con molta abilità, devo ammetterlo. Ci impiegò più di mezz’ora, e fece avanzare la canna con movimenti praticamente impercettibili.

Ringhiai quando la sua posizione si registrò nel mio cervello, e con tre passi gli fui a fianco.

Colpii la canna, strappandoglielo di mano.

Andò a finire contro una piccola roccia distante qualche metro.

La mano mi bruciava per la botta.

Hasan era in piedi, coi denti che andavano avanti e indietro sotto la barba, strusciandosi come pietre focaie. Potevo quasi vedere le scintille.

— E dillo! — urlai. — Avanti, dì qualcosa! Qualsiasi cosa! Sai maledettamente bene cosa stavi per fare!

Le sue mani si tesero.

— Avanti! — dissi. — Colpiscimi! Toccami! Poi tutto quello che farò sarà un’auto-difesa, un attacco provocato. Nemmeno George sarà capace di rimetterti assieme.

— Stavo solo pulendo il mio fucile. Me l’hai rovinato.

— Tu non punti le armi per caso. Stavi per uccidere Myshtigo.

— Ti sbagli.

— Colpiscimi. O sei un codardo?

— Non ho rancori con te.

— Allora sei un codardo.

— No, non lo sono.

Dopo qualche secondo sorrise.

— Hai paura di sfidarmi? — chiese.

E così eccoci arrivati. Era l’unico modo.

La mossa doveva essere mia. Avevo sperato che non dovesse andare così. Avevo sperato di poterlo spaventare o insultare o spingerlo a provocarmi o sfidarmi.

Ma ormai sapevo di non potere.

Ed era male, molto male.

Ero sicuro di poterlo fregare, se la scelta fosse toccata a me. Ma se toccava a lui, le cose erano diverse. Tutti sanno che certe persone hanno un’inclinazione particolare per la musica. Possono sentire una sola volta un pezzo e suonarlo immediatamente dopo al piano o all’arpa. Possono trovarsi di fronte ad un nuovo strumento, ed entro poche ore lo suonano come se non avessero fatto altro per anni. Sono abili, molto abili, in cose del genere, perché hanno talento: la capacità di coordinare un’abilità innata con una serie di nuove azioni.

Per Hasan era lo stesso con le armi. Forse anche altra gente può riuscirci, ma non va in giro a farlo; non per decenni e decenni, comunque, con gingilli che vanno dal boomerang ad ogni tipo di pistola. Il codice di duello avrebbe lasciato ad Hasan la scelta degli strumenti e lui era il killer più maledettamente abile che avessi mai conosciuto.

Ma dovevo fermarlo, e ormai capivo che quella era l’unica via che mi restava, a parte un assassinio bell’e buono. Dovevo scendere sul suo terreno.

— Amen — dissi, — ti sfido a duello.

Il suo sorriso rimase, crebbe.

— Accetto, davanti a questi testimoni. Chiama il tuo secondo.

— Phil Graver. Chiama il tuo.

— Mister Dos Santos.

— Molto bene. Si dà il caso che io abbia un permesso di duello in borsa, e ho già pagato la tassa sulla morte per una persona. Così non saranno necessari troppi ritardi. Quando, dove, e come?

— Abbiamo oltrepassato una buona radura circa un chilometro fa, ai margini della strada.

— Sì. La ricordo.

— C’incontreremo lì, domani all’alba.

— D’accordo — dissi. — E per le armi…?

Raccolse la sua borsa e l’apri. L’interno risplendeva d’interessanti aggeggi appuntiti, scintillava di bombe incendiarie ovoidali, traboccava di strumenti ricurvi in metallo e cuoio.

Lui tirò fuori due armi e richiuse il tutto.

Il cuore mi sprofondò.

— La fionda di Davide — annunciò.

Le osservai.

— A che distanza?

— Cinquanta metri.

— Hai fatto una buona scelta — gli confidai, visto che non ne usavo una da un secolo. — Mi piacerebbe prenderne una per stanotte, per allenarmi. Se non vuoi darmi le tue, posso procurarmela da me.

— Prendi pure quella che vuoi, e tienila tutta la notte.

— Grazie. — Ne scelsi una e me l’appesi alla cintura. Poi raccolsi una delle nostre tre lanterne elettriche. — Se qualcuno ha bisogno di me, mi trova nella radura — dissi. — Non dimenticate di mettere le guardie. Questa è una zona pericolosa.

— Vuoi che venga con te? — chiese Phil.

— No. Comunque grazie. Andrò da solo. Arrivederci.

— Allora buonanotte.

Trotterellai indietro lungo la strada, giungendo infine alla radura. Deposi la lanterna in un angolo, in modo che riflettesse la luce su un gruppo d’alberelli, e mi portai sul lato opposto.

Raccolsi qualche pietra e ne tirai una ad un albero. Lo sbagliai. Nei tirai un’altra dozzina, facendo quattro centri. Continuai a provare. Dopo un’ora facevo centro con maggiore regolarità. Ma probabilmente non ero ancora in grado di battere Hasan a cinquanta metri di distanza.

La notte proseguiva il suo cammino, e io lanciavo pietre. Dopo un po’ raggiunsi quello che sembrava essere il mio massimo grado di precisione. Su undici colpi, circa sei raggiungevano il bersaglio. Ma c’era un punto a mio favore, capii, mentre ruotavo la fionda e mandavo un’altra pietra a frantumarsi contro un albero. I miei colpi erano pieni di forza. Ogni volta che colpivo il bersaglio, lasciavo il segno. Avevo già rovinato parecchi alberelli, ed ero sicuro che Hasan non sarebbe riuscito a fare altrettanto nemmeno con un numero doppio di tiri. Se riuscivo a colpirlo, tutto bene; ma la più grande forza di questo mondo non mi sarebbe servita a nulla se non lo prendevo.

Ed ero sicuro che lui sarebbe riuscito a colpirmi. Mi chiedevo quanti colpi potevo assorbire senza dover smettere. Tutto dipendeva da dove mi colpiva.

Lasciai cadere la fionda ed estrassi l’automatica dalla cintura quando sentii un ramo spezzarsi, sulla mia destra. Hasan apparve nella radura.

— Che cosa vuoi? — gli chiesi.

— Sono venuto a vedere come va l’allenamento — disse, osservando gli alberelli spezzati.

Scrollai le spalle, rimisi a posto l’automatica e raccolsi la fionda.

— Aspetta l’alba e lo saprai.

Attraversammo la radura, e raccolsi la lanterna. Hasan studiò un alberello ridotto in pezzi piccoli quasi come stuzzicadenti. Non disse nulla.

Ritornammo al campo. Tutti s’erano ritirati, tranne Dos Santos. Don era di guardia. Fucile automatico alla mano, faceva la ronda attorno al perimetro di sicurezza. Lo salutammo ed entrammo nell’accampamento.

Hasan piantava sempre una Gauzy: una tenda a strati uni-molecolari, opaca, colore del cuoio, e molto robusta. Però non ci dormiva mai dentro. La usava per tenere al sicuro la sua roba.

Mi sedetti su un tronco dinanzi al fuoco, e Hasan s’infilò nella Gauzy. Ne riemerse un minuto dopo con la pipa e un blocchetto di roba dura dall’aspetto resinoso, che procedette a spezzare e ridurre in polvere. La mischiò con un pizzico di tabacco, e poi ne riempi la pipa. Dopo averla accesa con un tizzone raccolto dal fuoco, si sedette a fumare al mio fianco.

— Non voglio ucciderti, Karagee — disse.

— Condivido questo sentimento. Non voglio essere ucciso.

— Ma domani dovremo combattere.

— Sì.

— Potresti ritirare la sfida.

— Potresti andartene in Lancia.

— Non lo farò.

— E io non ritirerò la sfida.

— È brutto — disse, dopo un po’. — Brutto che due come noi debbano combattere per il blu. Non vale la tua vita, e nemmeno la mia.