— Il capo sono io, grazie — dissi. — Dò io gli ordini, e ho deciso che combatterò io col vampiro.
— In una situazione del genere penso che dovremmo essere un po’ più democratici in decisioni come queste, visto che si parla di vita o di morte — replicò lei. — Tu sei nato in questa regione. Per quanto buona sia la memoria di Phil, tu te la caverai sempre meglio nel farci fuggire di qui in fretta. Non è che tu ordini ad Hasan di morire, o che lo abbandoni. Si offre volontario.
— Ucciderò l’Uomo Morto — disse Hasan, — e vi seguirò. So come nascondermi dagli uomini. Seguirò le vostre tracce.
— È compito mio — gli feci notare.
— Allora, visto che non riusciamo a metterci d’accordo, lasciamo al fato la decisione — disse Hasan. — Gettiamo una moneta.
— Molto bene. Ci hanno tolto anche i soldi, oltre alle armi?
— Ho qualche spicciolo — disse Ellen.
— Getta una moneta per aria.
La gettò.
— Testa — dissi, mentre ricadeva sul pavimento.
— Croce — replicò lei.
— Non toccarla.
Era croce, perbacco. E dall’altra parte c’era una testa.
— Okay, Hasan, razza d’un fortunello — dissi. — Hai appena vinto un… completo da eroe, con tanto di mostro. Buona fortuna.
Lui scrollò le spalle.
— Era scritto.
Poi si sedette con la schiena contro il muro, estrasse un coltellino dalla suola del sandalo sinistro e cominciò a limarsi le unghie. Era sempre stato un assassino lindo e ordinato. Immagino che la pulizia sia stretta parente della diavoleria.
Mentre il sole scivolava pigramente verso occidente, Moreby tornò da noi, portandosi dietro un contingente di spadaccini Kouretes.
— Il tempo è giunto — annunciò. — Avete deciso per il campione?
— Hasan combatterà — dissi.
— Eccellente. Allora seguitemi. Non fate follie, per favore. Mi rivolterebbe lo stomaco presentare cibi deteriorati ad un festino.
Camminando tra un cerchio di lame, lasciammo la baracca e ci muovemmo lungo la strada del villaggio, oltrepassando il recinto. Otto cavalli si muovevano all’interno, a testa bassa. Anche nella fioca luce del tramonto potevo vedere che non erano bestie molto robuste. Avevano i fianchi coperti di piaghe, ed erano piuttosto magrolini. Tutti gettarono loro un’occhiata nel passare.
Il villaggio consisteva di circa trenta baracche, sul tipo di quella che ci aveva ospitati. Era una strada lurida quella che percorrevamo, piena d’immondizie e rifiuti. Il posto puzzava di sudore e orina e frutti marci e fumo.
Dopo un’ottantina di metri girammo a sinistra. Era la fine della strada e, attraverso un sentiero in discesa, raggiungemmo un grande campo. Una donna grassa e calva, coi seni enormi e la faccia che sembrava un sentiero scavato dalla lava pieno di escrescenze maligne, stava attizzando un fuoco basso e mortalmente suggestivo sul fondo d’una gigantesca fossa per barbecue. Ci sorrise mentre l’oltrepassavamo, e si leccò le labbra.
Sul terreno giacevano grandi spiedi affilati…
Più in alto rispetto a noi si stendeva una zona di terreno brullo e livellato. Su un lato del campo s’ergeva un enorme albero di tipo tropicale infestato da rampicanti, che s’era adattato al nostro clima; e tutt’intorno al perimetro del campo c’erano file di torce alte un due metri e mezzo, che gettavano già grandi fasci di luce, come bandiere luminose. Sull’altro lato stava la baracca più elaborata di tutte. Era alta circa cinque metri, e larga dieci. Era dipinta di rosso e coperta di simboli magici. Tutta la parte centrale della facciata era occupata da una gigantesca porta mobile. Due Kouretes armati le facevano la guardia.
Il sole era una piccola scorza d’arancia, ad occidente. Moreby ci fece attraversare tutto il campo, fino all’albero. Da ottanta a cento spettatori sedevano per terra a fianco delle torce, tutt’attorno al campo.
Moreby gesticolò, indicando la baracca rossa.
— Che vi sembra della mia casa? — chiese.
— Deliziosa — dissi.
— Ho un compagno di stanza, ma di giorno dorme. Comunque state per incontrarlo.
Giungemmo ai piedi del grande albero. Moreby ci abbandonò lì, circondati dalle sue guardie. Si portò nel centro del campo e cominciò a parlare in greco ai Kouretes.
Avevamo deciso d’aspettare fin verso la fine del combattimento, comunque stesse andando, per il nostro tentativo di fuga: i cannibali sarebbero stati eccitati, e tutti concentrati sul finale della lotta. Avevamo messo le donne nel centro del gruppo, ed io riuscii a portarmi sulla sinistra d’uno spadaccino Kourete, che intendevo uccidere in fretta (lui impugnava la lama nella destra). Peccato che fossimo al limite estremo del campo. Per arrivare ai cavalli avremmo dovuto riattraversare tutta la zona del barbecue.
— … e poi, quella notte — stava dicendo Moreby, — ecco che l’Uomo Morto s’alzò, e sconfisse questo grande guerriero, Hasan, e spezzò le sue ossa e disseminò il suo corpo su questo terreno di festa. E infine, uccise questo grande nemico e bevve il sangue della sua gola e mangiò il suo fegato, crudo e ancora fumante nell’aria della notte. Queste cose egli fece quella notte. Grande è il suo potere.
— Grande, oh, grande! — urlò la folla, e qualcuno cominciò a battere su un tamburo.
— Ora lo chiameremo di nuovo in vita…
La folla applaudì.
— Di nuovo in vita!
— Di nuovo in vita!
— Di nuovo in vita!
— Evviva!
— Evviva!
— Aguzzi denti bianchi…
— Aguzzi denti bianchi!
— Pelle bianca, bianca…
— Pelle bianca, bianca!
— Mani che spezzano…
— Mani che spezzano!
— Bocca che beve…
— Bocca che beve!
— Il sangue della vita!
— Il sangue della vita!
— Grande è la nostra tribù!
— Grande è la nostra tribù!
— Grande è l’Uomo Morto!
— Grande è l’Uomo Morto!
— GRANDE È L’UOMO MORTO!
Alla fine stavano urlando. Gole umane, semi-umane e disumane emettevano nel campo quella breve litania, come una marea inarrestabile. Anche le nostre guardie stavano gridando. Myshtigo s’era tappato gli orecchi sensibili, e aveva un’espressione d’agonia dipinta sul viso. Anche a me rimbombava la testa. Dos Santos si fece il segno della croce, e una delle guardie scosse il capo e alzò la spada in maniera molto significativa. Don scrollò le spalle e girò la testa verso il campo.
Moreby si portò alla baracca rossa e picchiò tre volte sulla porta con la sua bacchetta.
Una delle guardie gliel’aprí.
All’interno si trovava un enorme catafalco nero, circondato da crani di bestie e d’uomini. Sopra c’era appoggiata una gigantesca bara di legno nero, decorata con lucenti linee zigzaganti. Ad un ordine di Moreby, le guardie sollevarono il coperchio. Per i venti minuti successivi fece iniezioni ipodermiche a qualcosa che stava nella bara. Si muoveva con lentezza ritualistica. Una delle guardie mise da parte la spada e gli fece da assistente. I tamburi mandavano un suono continuo e basso. La folla era molto silenziosa, molto tranquilla.
Poi Moreby si girò.
— Ora l’Uomo Morto si leverà — annunciò.
— Si leverà — risposero gli spettatori.
— Ora egli verrà ad accettare il sacrificio.
— Ora egli verrà…
— Vieni, Uomo Morto — ordinò Moreby, girandosi nuovamente verso il catafalco.
E lui venne.
Con molta lentezza.
Perché era grosso.
Grasso, obeso.
Era grande sul serio, l’Uomo Morto.
Qualcosa come 150 chili.
Si rizzò nella sua bara e si guardò attorno. Si fregò il petto, le ascelle, il collo, l’inguine. Saltò fuori da quell’enorme scatola e si fermò a fianco del catafalco, facendo sembrare Moreby un nano.