Giorgio Faletti
Io sono Dio
(2009)
A Mauro, per il resto del viaggio
Mi sento come un autostoppista colto
da una grandinata su un’autostrada del Texas.
Non posso scappare.
Non posso nascondermi.
E non posso farla cessare.
OTTO MINUTI
Inizio a camminare.
Cammino lento perché non ho bisogno di correre. Cammino lento perché non voglio correre. Tutto è previsto, anche il tempo legato al mio passo. Ho calcolato che mi bastano otto minuti. Al polso ho un orologio da pochi dollari e un peso nella tasca della giacca. È una giacca in tela verde e sul davanti, sopra il taschino, sopra il cuore, una volta c’era una striscia cucita con un grado e un nome. Apparteneva a una persona il cui ricordo è sbiadito come se la sua custodia fosse stata affidata alla memoria autunnale di un vecchio. È rimasta solo una leggera traccia più chiara, un piccolo livido sul tessuto, sopravvissuto all’affronto di mille lavaggi quando qualcuno
chi?
perché?
ha strappato via quella striscia sottile e ha trasferito il nome prima su una tomba e poi nel nulla.
Adesso è una giacca e basta.
La mia giacca.
Ho deciso che la metterò ogni volta che uscirò per fare la mia breve camminata di otto minuti. Passi che si perderanno come fruscii nel fragore di milioni di altri passi camminati ogni giorno in questa città. Minuti che si confonderanno come scherzi del tempo, stelle filanti senza colore, un fiocco di neve sul crinale che è l’unico a sapere di essere diverso da tutti gli altri.
Devo camminare otto minuti a un passo regolare per essere sicuro che il segnale radio abbia voce sufficiente per compiere il suo lavoro.
Ho letto da qualche parte che se il sole si spegnesse di colpo, la sua luce raggiungerebbe la terra ancora per otto minuti prima di precipitare tutto nel buio e nel freddo dell’addio.
D’un tratto mi ricordo di questa cosa e mi metto a ridere. Solo, in mezzo alla gente e al traffico, la testa levata al cielo, una bocca spalancata su un marciapiede di New York per la sorpresa di un satellite nello spazio, mi metto a ridere. Intorno a me persone si muovono e guardano quel tipo in piedi all’angolo di una strada che sta ridendo come un pazzo.
Qualcuno forse pensa che pazzo lo sia davvero.
Uno addirittura si ferma e per qualche istante si unisce alla mia risata, poi si rende conto che ride senza saperne il motivo. Rido fino alle lacrime per la incredibile e derisoria viltà del destino. Uomini hanno vissuto per pensare e altri non hanno potuto farlo per essere stati costretti alla sola incombenza di sopravvivere.
E altri a morire.
Un affanno senza remissione, un rantolo senza aria da salvare, un punto interrogativo da portare sulle spalle come il peso di una croce, perché la salita è una malattia che non finisce mai. Nessuno ha trovato il rimedio per il semplice motivo che il rimedio non c’è.
La mia è solo una proposta: otto minuti.
Nessuno fra gli esseri umani che si affannano intorno a me può sapere il momento in cui questi ultimi otto minuti inizieranno.
Io sì.
Io ho nelle mie mani molte volte il sole e posso spegnerlo quando voglio. Raggiungo il punto che per il mio passo e per il mio cronometro rappresenta la parola qui, infilo la mano in tasca e le mie dita circondano un piccolo oggetto solido e conosciuto.
La mia pelle sulla plastica è una guida sicura, un sentiero da percorrere, una memoria vigile.
Trovo un pulsante e con delicatezza lo premo.
E un altro.
E un altro ancora.
Un attimo o mille anni dopo, l’esplosione è un tuono senza temporale, la terra che accoglie il cielo, un momento di liberazione.
Poi le urla e la polvere e il rumore delle macchine che si scontrano, e le sirene mi avvertono che per molta gente dietro di me gli otto minuti sono finiti.
Questo è il mio potere.
Questo è il mio dovere.
Questo è il mio volere.
Io sono Dio.
TROPPI ANNI PRIMA
CAPITOLO 1
Il soffitto era bianco ma per l’uomo steso sul lettino era pieno di immagini e di specchi. Le immagini erano quelle che da mesi lo tormentavano ogni notte. Gli specchi erano quelli della realtà e della memoria, dove continuava a vedere riflesso il suo viso.
Il suo viso di adesso, il suo viso di un tempo.
Due figure diverse, la tragica magia di una trasformazione, due pedine che nel loro percorso avevano segnato l’inizio e la fine di quel lungo gioco di società che era stata la guerra. Ci avevano giocato in tanti, troppi.
Qualcuno era rimasto fermo per un giro, qualcun altro per sempre.
Nessuno aveva vinto. Nessuno, né da una parte né dall’altra.
Ma nonostante tutto, lui era tornato. Aveva conservato la vita e il respiro e la possibilità di guardare, ma aveva perso per sempre il desiderio di essere guardato. Ora per lui il mondo non andava oltre il confine della sua ombra e come punizione avrebbe continuato a correre fino al fondo della vita, a fuggire inseguito da qualcosa che si portava incollato addosso come un manifesto su un muro.
Alle sue spalle il colonnello Lensky, lo psichiatra dell’esercito, era seduto su una poltrona di pelle, una presenza amica in una posizione da cui difendersi. Erano mesi, forse anni, in realtà secoli che si incontravano in quella stanza che non riusciva a cancellare dall’aria e dalla mente il leggero odore di ruggine che si respirava in ogni ambiente militare. Anche quando invece di una caserma si trattava di un ospedale.
Il colonnello era un uomo dai radi capelli castani e dalla voce calma e un aspetto che a prima vista ricordava più un cappellano che un soldato. A volte indossava la divisa ma quasi sempre era in borghese. Abiti tranquilli, colori neutri. Un viso senza identità, una di quelle persone che si incontrano e si dimenticano subito.
Che si vogliono dimenticare subito.
D’altronde, in tutto quel tempo, aveva ascoltato la sua voce più di quanto non avesse guardato il suo viso.
«E così domani uscirai.»
Quelle parole avevano dentro il senso definitivo del congedo, il valore illimitato del sollievo, il significato inesorabile della solitudine.
«Sì.»
«Ti senti pronto?»
No! avrebbe voluto urlare. Non sono pronto, come non lo ero quando tutto questo è cominciato. Non lo sono adesso e non lo sarò mai. Non dopo aver visto quello che ho visto e aver provato quello che ho provato e dopo che il mio corpo e la mia faccia…
«Sono pronto.»
La sua voce era stata ferma. O perlomeno gli era sembrata ferma mentre pronunciava quella frase che lo condannava al mondo. E se non lo era stata, di certo il colonnello Lensky preferiva pensare che lo fosse. Come uomo e come medico aveva scelto di credere che il suo compito fosse finito, piuttosto che ammettere di aver fallito. Per questo era disposto a mentire a lui come mentiva a se stesso.
«Molto bene allora. Ho già firmato i documenti.»
Sentì il cigolio della poltrona e il fruscio dei calzoni di tela, mentre il colonnello si alzava. Il caporale Wendell Johnson si mise a sedere sul lettino e rimase un attimo immobile. Di fronte a lui, oltre la finestra aperta sul parco, spuntavano le cime verdi degli alberi a scontornare un frammento di cielo azzurro. Da quella posizione non riusciva a vedere quello che di certo avrebbe visto se si fosse affacciato. Seduti sulle panchine o adagiati nel soccorso ostile di una sedia a rotelle, in piedi sotto le piante o figli di quei pochi movimenti fragili che qualcuno chiamava autosufficienza, c’erano uomini come lui.