Ogni volta che con altre mani aveva passato le dita fra i capelli di Karen e aveva respirato il suo profumo buono di donna, che sapeva di ogni cosa e di nessun posto simile al mondo. L’aveva provato come una fitta dolorosa quando se n’era andato dopo essere stato a casa in licenza per un mese, una effimera illusione di invulnerabilità che l’esercito concedeva a tutti prima della partenza. Gli erano stati offerti trenta giorni di paradiso e di sogni possibili, prima che l’Army Terminal di Oakland diventasse le Hawaii e infine si trasformasse in Bien-Hoa, il centro di smistamento truppe a venti miglia da Saigon.
E poi Xuan-Loc, il posto dove tutto era cominciato, dove si era guadagnato il suo piccolo appezzamento d’inferno.
Distolse lo sguardo dalla strada e abbassò la visiera del berretto da baseball. Portava occhiali da sole tenuti con un elastico perché non aveva praticamente più orecchie su cui appoggiare le stanghette. Chiuse gli occhi e si nascose in quella fragile penombra. Ne ebbe in cambio solo altre immagini.
Non c’era grano in Vietnam.
Non c’erano donne con i capelli biondi. Solo qualche infermiera dell’ospedale li aveva, ma ormai lui non aveva quasi più sensibilità nelle dita né desiderio di toccarli. E soprattutto, ne era certo, nessuna donna avrebbe più avuto il desiderio di farsi toccare da lui.
Mai più.
Un ragazzo con una camicia a fiori e i capelli lunghi che dormiva alla sua destra, dall’altra parte del corridoio, si svegliò. Si stropicciò gli occhi e si concesse uno sbadiglio che sapeva di sudore e di sonno e di erba fumata.
Si girò e iniziò a frugare in una borsa di tela che aveva appoggiato sul sedile libero di fianco. Tirò fuori una radio portatile e l’accese. Dopo qualche miagolio di ricerca una stazione lo accettò e le note di Iron Maiden, un pezzo dei Barclay James Harvest, si unirono al rumore delle ruote e del motore e al fruscio dell’aria fuori dai finestrini.
Istintivamente il caporale si voltò a guardarlo. Quando gli occhi del ragazzo, che doveva avere più o meno la sua età, si posarono sul suo viso, la reazione fu la solita, quella che leggeva ogni volta sulla faccia della gente, quella che era stato costretto a imparare per prima, come le male parole in una lingua straniera. Il ragazzo che aveva una vita e una faccia, belle o brutte che fossero, si rituffò nella borsa, fingendo di cercare qualcosa. Poi rimase seduto di tre quarti, dandogli le spalle, ad ascoltare la musica e a guardare fuori dal finestrino dalla sua parte.
Il caporale appoggiò la testa al vetro.
Ai lati della strada sfilavano cartelloni pubblicitari. A volte con prodotti che non conosceva. Automobili in corsa superavano il pullman e alcune erano di un modello che non aveva mai visto. Una Ford Fairlane decappottabile del ’66 che veniva in senso contrario fu l’unica immagine che in quel momento la sorte concesse alla sua memoria. Il tempo, seppure di poco, era andato avanti. E insieme al tempo la vita, con tutti gli appigli fortunosi che offriva a chi doveva giorno per giorno scalarla.
Erano passati due anni. Un battito di ciglia, uno scatto indecifrabile sul cronometro dell’eternità. Eppure erano bastati a cancellare tutto. Adesso, se alzava lo sguardo, davanti a lui c’era solo una parete liscia, con l’unico supporto del suo rancore a incoraggiare la salita. In tutti quei mesi era riuscito minuto dopo minuto a coltivarlo, a nutrirlo, a farlo crescere e diventare livore allo stato puro.
E adesso stava tornando a casa.
Non ci sarebbero state braccia aperte o parole di gloria o fanfare per l’arrivo dell’eroe. Nessuno lo avrebbe mai definito in quel modo e inoltre per tutti l’eroe era morto.
Era partito dalla Louisiana, dove un mezzo dell’esercito lo aveva scaricato senza troppi complimenti davanti alla stazione degli autobus. Si era trovato solo, di colpo comparsa e non più protagonista. Intorno c’era il mondo, quello vero, quello che non lo aveva aspettato. Non c’erano più i muri anonimi ma rassicuranti dell’ospedale. Mentre era in coda per prendere il biglietto, si era sentito una figura in fila per il casting di Freaks, il film di Tod Browning. Questo pensiero lo aveva fatto sorridere per un istante, l’unica scelta che aveva a disposizione. Per non fare quello che aveva fatto per intere notti e che aveva giurato di non fare più: piangere.
Buona fortuna, Wendell…
«Sedici dollari.»
Di colpo il saluto del colonnello Lensky era diventato la voce di un impiegato, che aveva appoggiato davanti a lui il biglietto per il primo tratto di strada. Nascosto dietro la feritoia dello sportello, l’uomo non aveva guardato quella parte di viso che il caporale concedeva al mondo. In cambio gli aveva offerto l’indifferenza da anonimo passeggero che desiderava.
Ma quando aveva spinto sul piano le banconote con una mano coperta da un guanto di cotone leggero, quel tipo magro, con pochi capelli e labbra sottili e occhi senza luce, aveva sollevato la testa. Si era soffermato un attimo sul suo volto e aveva di nuovo chinato il capo. La sua voce pareva arrivare dallo stesso posto da cui veniva lui, qualunque fosse.
«Vietnam?»
Aveva atteso un attimo prima di rispondere.
«Sì.»
Il bigliettaio a sorpresa gli aveva restituito il denaro.
Non aveva nemmeno preso in esame la sua perplessità. Forse l’aveva data per scontata. Aveva aggiunto poche parole che l’avevano risolta. E che per entrambi erano diventate un lungo discorso.
«Ci ho perso un figlio, fa due anni domani. Tienili tu questi. Credo serviranno più a te che alla Compagnia.»
Il caporale si era allontanato con la stessa sensazione di quando si era lasciato Jeff Anderson alle spalle. Due uomini soli per sempre, uno sulla sua sedia a rotelle e l’altro nella sua biglietteria, in un tramonto che pareva destinato per tutti a diventare eterno.
Durante il pensiero aveva cambiato autobus e compagni di viaggio e stati d’animo. L’unica cosa che non poteva cambiare era il suo aspetto. Se l’era presa comoda, perché non aveva nessuna fretta di arrivare e aveva un corpo dalla facile stanchezza e dal riposo difficile con cui fare i conti. Era sceso in motel di terz’ordine, dormendo poco e male, con i denti a tratti serrati e le mascelle contratte. E i suoi sogni ricorrenti. Sindrome da shock post-traumatico, qualcuno aveva detto. La scienza trovava sempre il modo per far diventare parte di una statistica la distruzione di una persona in carne e ossa. Ma il caporale aveva imparato a sue spese che il corpo non si abitua mai del tutto al dolore. Solo la mente talvolta riesce ad abituarsi all’orrore. E fra poco ci sarebbe stato modo di dimostrare a qualcuno tutto quello che aveva sperimentato sulla sua pelle.
Il Mississippi era diventato miglio dopo miglio il Tennessee, si era trasformato per la magia delle ruote nel Kentucky fino a promettergli davanti agli occhi il paesaggio familiare dell’Ohio. I panorami si erano catalogati intorno a lui e nella sua mente come posti stranieri, una linea che una matita colorata tracciava a mano a mano che passava il tempo sulla mappa di un territorio sconosciuto. Accanto alla strada correvano i fili della luce e del telefono. Portavano energia e parole sopra la sua testa.
C’erano case e persone come marionette nel loro teatrino che quei fili aiutavano a muoversi e a illudersi di vivere.
Ogni tanto si era chiesto di quale energia e di quali parole avesse bisogno lui in quel momento. Forse mentre era sdraiato sul lettino del colonnello Lensky tutte le frasi erano state dette e tutte le forze evocate e invocate. Era una liturgia chirurgica che la sua ragione aveva rifiutato come un credente rifiuta una pratica pagana e il dottore l’aveva celebrata invano. Aveva nascosto la sua piccola fede nel nulla in un posto sicuro della mente, un posto dove niente la potesse scalfire o annullare.
Quello che era stato non si poteva cambiare né dimenticare.
Solo ripagare.
Il leggero invito in avanti dell’autobus che rallentava lo riportò dov’era.