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«Sei già stato in riformatorio. La sai quella faccenda dei tuoi diritti?»

«Sì.»

Aveva soffiato a fatica quel monosillabo, con la bocca impastata.

«Allora fai conto che te li abbia letti.»

La voce si era rivolta all’altra ombra nella stanza con un tono di comando.

«Will, dai un’occhiata in giro.»

Mentre aveva la faccia premuta sul cuscino, gli erano giunti alle orecchie i rumori di una perquisizione. Cassetti aperti e richiusi, oggetti che cadevano, fruscio di vestiti gettati all’aria. Le sue poche cose erano frugate con mani forse esperte ma di certo senza alcun riguardo.

Infine un’altra voce, con un cenno di esultanza.

«Ehi, capo, ma cosa abbiamo qui?»

Aveva sentito un passo che si avvicinava e la pressione sulle sue spalle si era alleggerita. Poi quattro mani ruvide che lo tiravano su, fino a ritrovarsi seduto sul letto. Davanti ai suoi occhi la luce illuminava un sacchetto di plastica trasparente pieno di erba.

«Ci facciamo uno spinello ogni tanto, eh? E magari questa merda la vendi pure. Mi sa che sei nei guai, ragazzo.»

In quel momento la luce della stanza si era accesa, riducendo quella della torcia a semplice accessorio. Davanti a lui c’era lo sceriffo Duane Westlake in persona. Alle sue spalle, secco e allampanato, con un filo di barba sulle guance butterate, stava Will Farland, uno dei suoi aiutanti. Il sorriso beffardo che aveva stampato sulle labbra era una smorfia senza allegria. L’unica cosa che riusciva a fare era sottolineare l’espressione malvagia dei suoi occhi.

Lui era riuscito a farfugliare solo poche parole frettolose, detestandosi per questo.

«Non è mia quella roba.»

Lo sceriffo aveva inarcato un sopracciglio.

«Ah, non è tua. E di chi sarebbe? Questo posto è magico? La fatina del dentino a te porta la marijuana?»

Aveva sollevato la testa e li aveva guardati con aria decisa che per i due era diventata subito di sfida.

«Ce l’avete messa voi, pezzi di merda.»

Il manrovescio era arrivato veloce e violento. Lo sceriffo era grosso e aveva la mano pesante. Sembrava persino impossibile che potesse essere così rapido. Aveva sentito in bocca il sapore dolciastro del sangue. E

quello rugginoso della furia. D’istinto era scattato in avanti, cercando di colpire con una testata lo stomaco dell’uomo in piedi di fronte a lui. Forse la sua era stata una mossa prevedibile o forse lo sceriffo era dotato di una agilità insolita per un uomo della sua mole. Si era ritrovato disteso a terra, con la frustrazione del nulla di fatto unita alla rabbia.

Sopra di lui erano state pronunciate altre parole di derisione.

«Il nostro giovane amico ha il sangue caldo, Will. Vuole fare l’eroe.

Forse gli serve un sedativo.»

I due lo avevano tirato in piedi senza troppi riguardi. Poi, mentre Farland lo teneva fermo, lo sceriffo aveva fatto partire un pugno allo stomaco che aveva reso l’ossigeno un sollievo sconosciuto. Era caduto a corpo morto sul letto sfatto con la sensazione che non sarebbe mai più riuscito a respirare.

Lo sceriffo si era rivolto al suo aiutante con il tono con cui si chiede a un bambino se ha fatto i compiti.

«Will, sei sicuro di aver trovato tutto quello che c’era da trovare?»

«Forse no, capo. È meglio che dia un’altra occhiata a questa topaia.»

Farland aveva infilato una mano nel giubbotto e ne aveva estratto un oggetto avvolto in un foglio di plastica trasparente. Si era rivolto allo sceriffo, continuando tuttavia a guardare lui negli occhi.

Il suo ghigno derisorio si era allargato.

«Guardi un po’ che cosa ho trovato, capo. Non le sembra una cosa sospetta?»

«Che cos’è?»

«A prima vista direi un coltello.»

«Fammi vedere.»

Lo sceriffo aveva estratto dalla tasca un paio di guanti in pelle e li aveva indossati. Poi aveva preso l’involucro che il suo aiutante gli porgeva e aveva iniziato a svolgerlo. Il fruscio della plastica aveva a poco a poco rivelato il luccichio di un lungo coltello con il manico in plastica nera.

«Will, ma questa è una spada. E a occhio e croce una lama come questa potrebbe aver fatto fuori quei due straccioni di hippy, l’altra sera al fiume.»

«Già. Potrebbe.»

Steso sul letto, lui aveva iniziato a capire. E aveva avuto un brivido, come se la temperatura nella stanza si fosse abbassata di colpo. Per quanto glielo permetteva la voce rotta dal pugno ricevuto, aveva abbozzato una debole protesta.

Ancora non sapeva quanto sarebbe stata inutile.

«Non è mio. Non l’ho mai visto.»

Lo sceriffo lo aveva guardato con un espressione di ostentato stupore.

«Ah no? Ma se è pieno delle tue impronte.»

I due si erano avvicinati e lo avevano girato a pancia sotto. Tenendo il coltello per la lama, lo sceriffo lo aveva costretto a stringere il manico. La voce di Duane Westlake era calma, mentre pronunciava la condanna.

«Mi sono sbagliato prima, quando ti ho detto che sei nei guai. In realtà sei nella merda fino al collo, ragazzo.»

Poco dopo, mentre lo trascinavano via per caricarlo sull’auto, aveva avuto la netta percezione che la sua vita, come l’aveva conosciuta fino a quel momento, fosse finita per sempre.

«…della guerra del Vietnam. Continua la polemica per la pubblicazione da parte del “New York Times” dei Pentagon Papers. È previsto un ricorso alla Corte Suprema per la ratifica del diritto a farlo da parte…»

La voce impostata di uno speaker delle Daily News, che la targhetta identificava come Alfred Lindsay, lo riscosse dal torpore senza riposo in cui era scivolato. Il volume della Tv si era alzato da solo, come se fosse animato da una volontà propria. Come se la notizia fosse qualcosa che doveva assolutamente sentire. L’argomento era sempre e ancora la guerra, che tutti volevano nascondere come sporcizia immobile sotto il tappeto e che strisciando da serpente riusciva sempre a sporgere la testa oltre i bordi.

Il caporale conosceva quella storia.

I Pentagon Papers erano il risultato di un’indagine accurata sulle cause e sulle modalità che avevano portato gli Stati Uniti a trovarsi coinvolti in Vietnam, un’inchiesta voluta dal segretario della Difesa McNamara e realizzata da un gruppo di trentasei esperti, funzionari civili e militari, sulla base dei documenti governativi da Truman in poi. Come un coniglio dal cilindro dei giornalisti, era emerso in modo evidente che l’amministrazione Johnson aveva in piena coscienza mentito all’opinione pubblica riguardo alla conduzione del conflitto. Pochi giorni prima il «New York Times», che ne era venuto in qualche modo in possesso, aveva iniziato a pubblicarli.

Con le conseguenze che erano facilmente immaginabili.

E infine sarebbero state, come succedeva di solito, solo parole. Che tanto dette quanto scritte avevano sempre lo stesso peso.

Che ne sapevano quelli della guerra? Che ne sapevano di cosa voleva dire trovarsi migliaia di miglia lontano da casa, a combattere contro un nemico invisibile e dalla volontà incredibile, che nessuno poteva pensare fosse disposto a pagare un prezzo così alto per avere in cambio così poco?