«No. Io questo tipo non l’ho mai visto.»
Il padrone di casa tornò ad appoggiarsi allo schienale della poltrona. La voce di Russell, che fino a quel momento era rimasto in silenzio, sorprese tutti i presenti nella stanza.
«Signor Johnson, se quello non è suo fratello, potrebbe essere un suo compagno nell’esercito. Di solito tutti i ragazzi che finivano in Vietnam mandavano a casa delle foto in divisa. A volte da soli, ma spesso con un gruppo di amici. Non è che per caso l’ha fatto anche lui?»
Lester Johnson lo guardò con occhi acuti, come se quella domanda fosse arrivata a spezzare il suo sogno di vedere uscire quegli intrusi il più in fretta possibile da casa sua.
«Aspettate un attimo. Torno subito.»
Si alzò dalla poltrona e Vivien lo vide sparire oltre la soglia. Rimase via per un tempo che sembrava interminabile. Quando tornò reggeva in mano una scatola di cartone. La tese verso Vivien e si rimise seduto.
«Ecco, in questa scatola ci sono tutte le immagini che mi restano di Wendell. Ce ne dovrebbe essere anche qualcuna del Vietnam.»
Vivien la aprì. Era piena di fotografie, alcune a colori, alcune in bianco e nero. Le fece scorrere velocemente. Il soggetto era sempre lo stesso. Un ragazzo biondo dall’aria simpatica, solo o con amici. Alla guida di un’auto, da bambino su un pony, con il fratello, con i genitori, con i capelli lunghi stretti da una fascia mentre abbracciava una chitarra. Le aveva già passate quasi tutte quando la trovò. Era in bianco e nero e raffigurava due soldati davanti a un carro armato. Uno era il ragazzo sorridente che aveva visto più volte nelle foto precedenti, l’altro era il ragazzo che in quelle in loro possesso tendeva verso l’obiettivo un gatto con tre zampe.
Vivien la girò e dietro ci trovò una scritta sbiadita The King e Little Boss segnata con una calligrafia irregolare ma che ai suoi occhi presentava una caratteristica: era completamente diversa da quella sulla lettera che aveva dato inizio al delirio. Tese la foto a Russell, in modo che potesse vedere il frutto della sua intuizione. Quando la ebbe indietro, la passò a Lester Johnson.
«Cosa significa la scritta che c’è dietro?»
L’uomo prese la foto e guardò prima il fronte e poi il retro.
«The King era il soprannome che si era dato per scherzo Wendell.
Presumo che Little Boss significhi la stessa cosa per l’altro ragazzo.»
Tese di nuovo il rettangolo che portava il segno degli anni a Vivien.
«Le chiedo scusa se le ho detto di non averlo mai visto. Credo di avere guardato queste foto l’ultima volta trent’anni fa.»
Tornò ad appoggiarsi allo schienale e Vivien lo sorprese con gli occhi lucidi. Forse il suo atteggiamento cinico era solo un modo per difendersi, forse il fatto di non avere avuto più notizie di suo fratello lo aveva fatto soffrire più di quanto volesse ammettere. E lei era arrivata a riaprire una vecchia ferita.
«Non ha proprio idea di chi possa essere la persona che sta con Wendell?»
L’uomo scosse la testa senza dire nulla. Il suo silenzio valeva più di mille parole. Voleva dire che quella sera aveva perso suo fratello un’altra volta. Voleva dire che loro avevano perso l’unica traccia vera che avevano in mano.
«Possiamo tenere questa fotografia? Le prometto che gliela farò riavere.»
«Va bene.»
Vivien si alzò. Gli altri capirono che la loro permanenza in quella casa non aveva più motivo di essere. Lester Johnson sembrava aver perso tutta la sua energia. Li accompagnò alla porta in silenzio, forse rimuginando dentro di sé quanto basta poco a far affiorare i ricordi e quanto possono fare male.
Mentre Vivien stava per uscire, la trattenne.
«Posso farle una domanda, signorina?»
«Dica.»
«Perché lo state cercando?»
«Non glielo posso dire. Ma c’è una cosa che sono in grado di affermare in tutta certezza.»
Gli concesse una pausa per isolare quello che stava per dirgli.
«Suo fratello non si è più fatto vivo non perché non voleva. Suo fratello è morto in Vietnam, insieme ad altri ragazzi come lui.»
Vide un respiro profondo gonfiare il petto dell’uomo.
«Grazie. Buonanotte.»
«Grazie a lei, signor Johnson. Ci saluti Billy. È un gran bel bambino.»
Quando la porta si richiuse alle sue spalle fu contenta di aver risolto i suoi dubbi e di lasciarlo solo a concedersi qualche lacrima senza testimoni in memoria di suo fratello. Mentre si avvicinava alla macchina, pensava che per loro, invece, la certezza era una meta ancora lontana. Era arrivata a Hornell convinta di trovare un punto di arrivo, invece si era trovata di fronte un nuovo incerto punto di partenza.
Le guerre finiscono. L’odio dura per sempre.
Quella frase di Russell le tornò in mente mentre apriva la portiera.
L’odio covato per anni aveva portato un uomo a disseminare una città di bombe. L’odio ne aveva portato un altro a farle esplodere. L’illusione di tornare a New York in uno stato d’animo diverso era crollata davanti alla realtà. Sapeva che per tutto il viaggio di ritorno avrebbe pensato alle conseguenze di quel gioco insano che era la guerra e di come avesse il potere, a distanza di anni, di continuare a mietere vittime.
CAPITOLO 29
Quando la sveglia suonò, Vivien non aprì subito gli occhi.
Rimase stesa nel letto a godere del contatto del suo corpo fra le lenzuola, con la pigrizia che derivava da una notte di sonno incerto e senza riposo.
Si mosse e si accorse di essere in diagonale nel letto, segno che l’agitazione che le aveva fatto cambiare cento posizioni nel dormiveglia era proseguita anche dopo che si era addormentata. Allungò una mano a spegnere la sveglia. Segnava le nove. Si stirò e fece un lungo respiro. Il cuscino di fianco portava ancora tracce dell’odore di Russell.
O lei immaginava che fosse così, il che era ancora peggio.
Si concesse uno sguardo nella penombra su quel paesaggio familiare che era la sua camera da letto. Il prosieguo delle indagini, ora, non faceva capo a lei e Bellew le aveva consigliato una notte di tregua. Aveva sorriso a quelle parole. Come se una tregua fosse possibile, con il cellulare posato sul comodino che da un momento all’altro poteva squillare e portare notizie da nascondere la testa sotto le coperte e desiderare di svegliarsi mille anni e mille miglia lontano da lì.
Si alzò, indossò un accappatoio di spugna morbida, prese il telefono e si diresse a piedi scalzi verso la cucina. Iniziò a preparare il caffè. Quel mattino, contrariamente alle sue abitudini, non aveva voglia di fare colazione. Solo all’idea del cibo lo stomaco le si chiudeva. E dire che l’ultima volta che aveva mangiato era stato con Russell al chiosco in Madison Square Park.
Russell…
Mentre infilava il filtro nella macchinetta ebbe un moto di dispetto. Con quello che stava attraversando, con un pazzo là fuori che minacciava di far esplodere mezza città, con Greta stesa nel letto di una clinica in condizioni disperate, non le sembrava né possibile né giusto che nel suo cervello ci fosse ancora spazio per pensare a quell’uomo.
La sera prima, al ritorno da Hornell, era venuto a casa con lei, aveva preso la sua roba e se n’era andato. Lui non aveva chiesto di restare e lei sapeva che se glielo avesse proposto si sarebbe trovata di fronte a un rifiuto.
Fermo sulla soglia, prima di uscire, si era girato a guardarla. Con quegli occhi scuri nei quali alla tristezza si era affiancata la fermezza.
«Ti chiamo domani mattina.»
«Va bene.»
Era rimasta qualche secondo immobile davanti alla porta chiusa, solo una delle tante che in quel momento si trovava di fronte.
Versò nella tazza un caffè che per quanto zucchero aggiungesse sarebbe stato sempre troppo amaro.
Si disse che era successo quello che tante volte nella vita succedeva.