«Dove andiamo?»
«140 Broadway, a Brooklyn. A casa del Fantasma del Cantiere.»
Si immisero sulla West Street proseguendo verso sud. Poco dopo si lasciarono alle spalle l’imbocco del Brooklyn Battery Tunnel e proseguirono in direzione della F.D. Roosevelt Drive. Mentre procedevano, Vivien mise al corrente Russell del fatto che la storia di Wendell Johnson era coperta dal segreto militare e di come non fosse facile aggirarlo in tempi brevi. Lui ascoltò in silenzio, con la sua solita espressione assorta, come seguendo un’idea che tuttavia non ritenne opportuno esprimere. Intanto avevano imboccato il Williamsburg Bridge e l’acqua dell’East River splendeva sotto di loro, appena increspata da un vento leggero. Alla fine del ponte piegarono a destra sulla Broadway e poco dopo si trovarono di fronte alla casa che stavano cercando.
Era un palazzone di appartamenti, dall’aria consumata, come le centinaia di altri anonimi alveari che ospitavano in quella città gente altrettanto anonima. Era in posti come quello che le persone vivevano per anni senza lasciare traccia della loro presenza e a volte morivano senza che per giorni qualcuno li venisse a cercare.
Davanti al portone contrassegnato con il numero 140 c’era una macchina della Polizia in attesa. Vivien parcheggiò proprio di fronte, in uno stallo destinato al carico e scarico delle merci. Salinas scese dalla macchina e venne verso di lei.
Non degnò di uno sguardo Russell. Ormai quello pareva essere diventato l’atteggiamento ufficiale del 13° Distretto nei suoi confronti. E anche la simpatia che l’agente aveva sempre dimostrato verso di lei sembrava svanita.
Le tese un mazzo di chiavi.
«Ciao, Vivien. Il capitano mi ha detto di darti queste.»
«Perfetto.»
«L’appartamento è il 418B. Vuoi che ti accompagni?»
«Non c’è problema. Facciamo da soli.»
L’agente non insistette, ben lieto di potersene andare da quel posto e da quella compagnia. Mentre guardavano la macchina partire, la sorprese la voce di Russell.
«Grazie.»
«Di che cosa?»
«Quell’agente ha chiesto solo a te se doveva accompagnarti. Gli hai risposto usando il verbo al plurale, in un modo che comprendeva anche me. Di questo ti ringrazio.»
Vivien si accorse di averlo fatto inconsciamente, tanto la presenza di quell’uomo al suo fianco era diventata una cosa abituale. Tuttavia fu costretta a considerare la delicatezza di quel pensiero.
«Bene o male, siamo un team.»
Russell accettò con un mezzo sorriso la definizione.
«Non credo che con questo tu ti stia facendo degli amici, al Distretto.»
«Gli passerà.»
Con questo laconico commento lasciato a rimbalzare sull’asfalto del marciapiede, entrarono nel portone. Attesero in un atrio che sapeva di uomini e di gatti l’arrivo di un ascensore che si presentò preceduto da qualche incomprensibile cigolio nella lingua dei montacarichi. Salirono al quarto piano e individuarono subito l’appartamento, sigillato alla buona da un paio di strisce di nastro giallo che indicavano un luogo interdetto e soggetto a indagine.
Vivien tolse il nastro e girò le chiavi nella toppa.
Appena aprirono la porta, ebbero subito in cambio quella sensazione desolata che si ha dalle case disabitate da tempo. L’ingresso dava senza preamboli su un ambiente che era cucina e soggiorno insieme. Al primo sguardo si capiva senza ombra di dubbio che quella era la casa di un uomo solo. Solo e senza nessun interesse verso il mondo. A destra c’erano un angolo cottura e un frigorifero accanto a un tavolo con un’unica sedia. Di fronte ai fuochi, accanto alla finestra, una poltrona e un vecchio televisore posato su un tavolino malandato. Su tutto, un sottile strato di polvere che recava le tracce della perquisizione degli agenti il giorno prima.
Entrarono nell’appartamento come in un tempio del male, trattenendo il fiato, pensando che per anni un uomo era vissuto fra quelle pareti, si era mosso, aveva dormito, aveva mangiato in compagnia di presenze che solo lui poteva vedere e che aveva scelto di combattere nel modo più violento che aveva trovato.
Adesso che in qualche modo potevano intuire la sua storia, avevano l’esatta dimensione di cosa avesse, giorno dopo giorno, alimentato il rancore che lo aveva portato alla sua devastante follia giornaliera.
Aveva scelto di uccidere uomini illudendosi di uccidere con loro i suoi ricordi.
Diedero una rapida occhiata alla stanza spoglia, priva di qualsiasi oggetto che non fosse l’indispensabile. Niente quadri, niente soprammobili, nessuna concessione al gusto personale, a meno che non si volesse considerare come gusto personale quella sua devastante assenza. Di fianco al frigorifero c’era la sola traccia di vita quotidiana e di umanità di quella stanza. Una mensola carica di essenze aromatiche, segno che chi abitava in quella casa cucinava da solo i suoi pasti.
Passarono nella stanza di fianco, che concludeva la visita in quel minuscolo appartamento. Addossato alla parete a destra della porta c’era un armadio, che aveva di fronte un letto a una piazza quasi accostato al muro.
Alla destra del letto, a dividerlo dalla parete, un tavolino da notte con un abat-jour dall’aria impietosa. A sinistra, dei cavalletti reggevano due piani di legno paralleli. Uno all’altezza di un normale tavolo, l’altro rialzato di una ventina di pollici dal pavimento. Qui c’era la seconda sedia di tutta la casa, una vecchia poltrona da ufficio con le rotelle, dall’aria talmente malandata da dare l’idea che fosse stata regalata da un rigattiere, piuttosto che comprata. Anche qui i muri erano spogli, a parte una grande mappa della città appesa al muro sopra al bancone.
Sul piano inferiore c’erano degli oggetti. Libri, perlopiù. Qualche rivista.
Un mazzo di carte che faceva pensare a degli interminabili solitari piuttosto che al piacere di una partita fra amici. E una grossa cartellina di cartone grigio contenente dei fogli.
Vivien si avvicinò.
Se quello era il posto dove preparava i suoi marchingegni, gli attrezzi e gli elementi soggetti ad analisi erano già stati prelevati dalla squadra di agenti durante la perquisizione del giorno prima. Tuttavia il capitano le aveva assicurato che tutto era stato lasciato intatto, per cui era possibile che non avessero trovato nulla.
Si chinò a prendere in mano uno dei libri. Una Bibbia. Un libro di ricette di cucina. Un thriller di Jeffery Deaver, uno scrittore che anche lei amava molto. Una guida turistica di New York.
Prese la cartellina e la appoggiò sul piano più alto del tavolo. Quando la aprì la trovò piena di disegni che avevano una caratteristica particolare.
Erano tutti stati eseguiti, invece che su una normale carta, su dei fogli rigidi di plastica trasparente, come se l’artista avesse scelto quella strada per esprimere la sua originalità oltre che il suo talento.
Iniziò a passare i disegni a uno a uno.
Forse il supporto assicurava l’originalità, ma anche allo sguardo di un incompetente risultava chiaro che di talento l’autore dei disegni non ne aveva affatto. La composizione era approssimativa, il tratto incerto e l’uso del colore senza gusto e senza tecnica. La persona che aveva abitato quella casa sembrava ossessionata dalle costellazioni. Ogni disegno ne raffigurava una, secondo una mappa stellare che solo lui aveva nella testa.
Costellazione della Bellezza, Costellazione di Karen, Costellazione della Fine, Costellazione dell’Ira…
Una serie di punti uniti fra loro da tratti di diverso colore. A volte stelle, tracciate con la mano di un bambino, a volte cerchi, a volte croci, a volte semplici arruffati tocchi di pennello. Russell, che fino a poco prima si era tenuto un paio di passi discosto da lei, si era avvicinato in modo da poter vedere quello che Vivien stava esaminando.
Si concesse un giudizio che lei non poteva che condividere.