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«Che orrori.»

Stava per aggiungere un parere simile, quando il cellulare si mise a suonare. Mise la mano in tasca con il desiderio di spegnerlo senza nemmeno vedere chi la stesse chiamando. Lo tirò fuori con malagrazia e lo guardò, temendo di veder apparire il numero della Mariposa.

Invece la rubrica dell’apparecchio stava visualizzando il nome di padre McKean.

«Pronto.»

Una voce conosciuta ma che in quel frangente non riconosceva le arrivò all’orecchio. Era tesa, come impaurita, senza traccia dell’energia che di solito sapeva trasmettere.

«Vivien, sono Michael.»

«Ciao. Che succede?»

«Ho bisogno di vederti, Vivien. Al più presto e da sola.»

«Michael, adesso sono in un pasticcio tremendo e non…»

Il sacerdote parlava come se quel discorso l’avesse già fatto dentro di sé diverse volte.

«Vivien, è questione di vita o di morte. Non la mia ma quella di tante persone.»

Un attimo di esitazione. Un attimo che all’uomo dall’altra parte doveva essere sembrato eterno, da come proseguì il suo discorso.

«È una cosa legata a quelle esplosioni, che Dio mi assolva.»

«Le esplosioni? Che c’entri tu con le esplosioni?»

«Vieni presto, ti prego.»

Padre McKean riattaccò e Vivien rimase in piedi in mezzo alla stanza, nel riquadro di sole disegnato dalla finestra sul pavimento. Si accorse che mentre era impegnata al telefono, come spesso le succedeva quando era assorta, si era spostata nel soggiorno.

Russell l’aveva seguita e si era fermato sulla soglia dell’altra stanza.

Lo guardò, incerta su cosa dirgli ma soprattutto su cosa dire a se stessa.

Michael le aveva chiesto di parlare con lei da solo. Portare Russell significava forse contrariare il prete e magari inibirlo in quello che aveva da dirle. Nello stesso tempo significava confessare che sua nipote era in una comunità di tossicodipendenti. Non se la sentiva di sopportare anche quello.

Scelse in fretta, riservandosi di scoprire poi se aveva scelto bene o male.

«Devo andare in un posto.»

«Il verbo al singolare significa che devi andarci da sola? Ho capito bene?»

Durante la conversazione Vivien si era fatta sfuggire la parola «esplosioni». Questo argomento aveva attivato subito l’attenzione di Russell.

«Sì. Devo vedere una persona e la devo vedere da sola.»

«Credevo avessimo un accordo.»

Gli diede le spalle. Poi si vergognò di averlo fatto.

«L’accordo non vale per questo.»

«Il capitano mi aveva dato la sua parola che avrei potuto seguire le indagini.»

Sentì la furia montarle dentro. Per quello che era lui, per quello che era lei, per quello che stava vivendo senza alcuna possibilità di intervenire a cambiare le cose. Solo quella di subirle.

Si girò di scatto, la voce secca, l’espressione dura.

«Hai avuto la parola del capitano, non la mia.»

Il secondo dopo durò un secolo, in quella stanza.

Non posso credere di aver detto davvero questa cosa…

Russell impallidì. Poi rimase un istante a guardarla come si guarda una persona che sta partendo per non tornare più. Con quella tristezza in fondo agli occhi che sembrava la luce stessa del rimpianto.

Infine, in silenzio, raggiunse la porta. Senza che lei avesse la forza di fare o di dire nulla, la aprì e uscì nel corridoio. L’ultimo segno che ebbe da lui fu l’uscio richiuso con delicatezza.

Vivien rimase sola come non si era mai sentita. L’impulso sarebbe stato quello di uscire nel corridoio e richiamarlo, ma si disse che non poteva farlo. Non in quel momento. Non prima di avere saputo quello che padre McKean aveva da dirle. C’erano in ballo le vite di tante persone. La sua e quella di Russell passavano in secondo piano. D’ora in poi avrebbe avuto bisogno di tutta la sua volontà e di tutto il suo coraggio, troppo per impegnarne una parte ad ammettere di essersi innamorata di un uomo che non la voleva.

Attese qualche istante, in modo da dargli il tempo di uscire dal palazzo e allontanarsi. Mentre aspettava, le tornarono in mente come un’accusa le parole che gli aveva detto mentre stavano entrando.

Gli aveva detto che erano un team.

Lui si era fidato e lei lo aveva tradito.

CAPITOLO 30

Quando Vivien aprì la porta, vide il corridoio deserto e male illuminato.

La penombra e l’idea che quell’uomo lo avesse percorso per anni, che avesse ogni giorno poggiato i piedi su quella moquette dal colore ormai indefinibile, le diedero la sensazione di un luogo malvagio e ostile.

Una donna di colore vecchia e rugosa, con le gambe incredibilmente storte, sbucò da dietro l’angolo del pianerottolo e si diresse verso di lei, aiutandosi con un bastone. Il braccio libero sorreggeva un sacchetto della spesa. Quando la vide chiudere la porta non riuscì a trattenere un commento.

«Ah, finalmente l’hanno affittato a un essere umano.»

«Prego?»

La vecchia non si curò di dare altre spiegazioni. Si fermò davanti all’uscio di fronte a quello da cui Vivien era appena uscita. Le tese senza troppi complimenti il sacchetto. Probabilmente la sua età e la sua condizione le avevano insegnato a imporsi, invece che a chiedere. O forse pensava che la sua età e la sua condizione fossero già di per sé un diritto a ottenere.

«Regga questo. Ma si ricordi che io non do mance.»

Vivien si trovò fra le braccia il pacchetto da cui proveniva un odore di cipolle e di pane. Sempre sorreggendosi al bastone, la donna si frugò nella tasca del pastrano. Tirò fuori una chiave e la infilò nella toppa. Diede risposta a una domanda che nessuno aveva formulato.

«È venuta la Polizia, ieri. Lo sapevo che quel tipo non era una persona per bene.»

«La Polizia?»

«Già. Altra bella gente, quella. Hanno suonato, ma io non ho aperto.»

Dopo quella aperta dichiarazione di diffidenza, Vivien decise di non qualificarsi. Attese che la vecchia aprisse la porta. Subito un grosso gatto nero fece capolino. Quando vide che la sua padrona era in compagnia di una sconosciuta, corse via. D’istinto, Vivien controllò che avesse tutte e quattro le zampe.

«Chi abitava qui, prima di me?»

«Un tipo con la faccia tutta sfregiata. Un vero mostro. Nell’aspetto e nei modi. Un giorno è venuta un’ambulanza e se lo sono portato via. Gente del manicomio, spero.»

Nel suo lapidario e impietoso giudizio, la donna aveva colpito nel segno.

Sarebbe stato il posto giusto dove quell’uomo, chiunque fosse, avrebbe dovuto trascorrere i suoi giorni. La vecchia entrò in casa e indicò con un cenno della testa il tavolo.

«Lo metta lì.»

Vivien la seguì all’interno e vide che l’appartamento era speculare a quello che aveva appena finito di ispezionare. Nella stanza c’erano altri due gatti, in aggiunta a quello nero. Uno bianco e rosso stava dormendo su una sedia senza curarsi di loro. Un secondo, grigio e tigrato, saltò sul tavolo.

Vivien appoggiò il sacchetto e subito il felino corse ad annusarlo.

La donna gli diede uno scappellotto sul sedere.

«Via tu. Si mangia dopo.»

Il gatto saltò a terra e andò a nascondersi sotto la sedia dove il suo simile continuava a dormire.

Vivien diede uno sguardo in giro. La camera era il trionfo dello spaiato.

Non c’era una sedia uguale all’altra. I bicchieri sulla mensola sopra l’acquaio erano tutti diversi fra loro. Un piccolo caos di colori e di cose vecchie. L’odore di gatto nella casa era il fratello maggiore di quello nell’atrio.

La vecchia si girò verso Vivien e la guardò come se le fosse comparsa di fronte di colpo.

«Cosa stavo dicendo?»

«Mi stava parlando dell’inquilino dell’appartamento di fronte.»

«Ah, sì, quel tipo. Non è più tornato. È venuto quell’altro a vederlo, un paio di volte. Ma non deve essergli piaciuto e non l’ha affittato. Chissà in che stato era quella casa.»