Vivien sentì un tuffo al cuore.
«Quell’altro? Il padrone di casa non mi ha detto che c’era un’altra persona interessata all’appartamento.»
La vecchia si tolse il soprabito e lo gettò sullo schienale di una sedia.
«È successo un po’ di tempo fa. Un tipo alto, con una giacca verde. Di quelle militari, credo. Uno strano anche lui. È venuto un paio di volte e poi non è più tornato. Meno male che non l’ha preso.»
Vivien avrebbe avuto voglia di fermarsi e continuare a farle delle domande, cercando di non insospettirla. Fin dall’inizio non aveva fatto mistero su come la pensava a proposito della Polizia. Ma questo richiedeva tempo e l’urgenza dimostrata al telefono da padre McKean la tirava fuori di lì come una fune legata alla vita. Si ripromise di tornare e di approfondire l’argomento dopo avere incontrato il sacerdote.
La donna si avvicinò all’angolo cottura.
«Vuole un caffè?»
Vivien guardò l’orologio come una persona che considerava quell’eventualità un piacere al quale era costretta a rinunciare.
«Mi spiace. Lo accetterei volentieri ma sono di fretta.»
Una lieve delusione si dipinse sul viso della vecchia. Vivien arrivò in suo soccorso.
«Lei come si chiama?»
«Judith.»
«Bene, Judith, io sono Vivien. Adesso ti dirò cosa faremo. Io andrò al mio appuntamento e quando tornerò busserò alla tua porta e ci prenderemo quel caffè. Come due brave vicine di casa.»
«Non fra le tre e le quattro. Devo andare dal dottore perché la mia schiena mi…»
Oh no. Non ora l’elenco degli acciacchi.
Vivien interruppe sul nascere quella che poteva rivelarsi una lunga litania di artriti e dolori di stomaco.
«Okay. Ora devo proprio andare. Ci vediamo dopo.»
Raggiunse la porta e prima di uscire lanciò un sorriso alla sua nuova amica.
«E tieni in caldo quel caffè. Ne avremo di cose da raccontarci.»
«Va bene. Ma ricordati che io non do mance.»
Vivien si ritrovò da sola nel corridoio, a chiedersi quanto fosse attendibile quella vecchia signora svanita. Ma, per quanto esile, le aveva fornito l’ipotesi di una traccia. Come aveva più volte detto Bellew, nella loro situazione non andava trascurata nessuna eventualità.
Strattonata dall’ascensore, scese nell’atrio e uscì in strada. Un agente era in piedi davanti alla sua macchina e le stava facendo la multa. Raggiunse l’auto mentre il poliziotto stava sollevando il tergicristallo per infilarci il foglio.
«Mi scusi, agente.»
«E suo questo mezzo?»
«Sì.»
«Lo sa che questo spazio è riservato al carico e scarico delle merci?»
Senza parlare Vivien gli mostrò il distintivo. Il poliziotto sbuffò e tolse la multa dal vetro.
«La prossima volta le conviene esporre il contrassegno. Eviteremo di perdere tempo. Lei e io.»
Il tempo era proprio un materiale che Vivien non aveva. Nemmeno per controbattere le giuste osservazioni di un agente di quartiere.
«Mi scusi. Non era mia intenzione.»
L’uomo in divisa si allontanò bofonchiando un saluto. Vivien salì in macchina e avviò il motore. Chiese di nuovo aiuto al lampeggiante. Con la massima velocità possibile per non rischiare la propria e non far rischiare la pelle ad altri, iniziò la sua risalita verso nord. Prese la Brooklyn-Queens Expressway poi seguì la 278 finché dopo il ponte divenne la Bruckner.
Durante il viaggio, dopo averci riflettuto a lungo, provò un paio di volte a chiamare Russell. Il telefono era sempre spento. Per ribattere al proprio malumore, cercò di convincersi che aveva agito per il meglio. Nonostante la buona volontà, si rese conto che una parte di lei aveva seguito Russell quando se ne era andato. E adesso non sapeva dov’erano e verso cosa stessero camminando.
Si costrinse a riassumere nella mente tutta la storia, esaminando bene ogni particolare per vedere se nella loro analisi fosse sfuggito qualcosa.
Ziggy, la lettera, Wendell Johnson, Little Boss, quell’assurdo gatto a tre zampe. Tutte le bombe che un pazzo era riuscito a seminare prima della sua morte. Le vittime che c’erano state e quelle che ci sarebbero state ancora, se non prendevano chi aveva rilevato il suo proposito di vendetta e lo stava ponendo in atto senza nessuna pietà.
E infine quella gattara strampalata, Judith. Era degna di fede o no?
Russell aveva visto un uomo con una giacca verde uscire dall’appartamento di Ziggy. Un uomo con lo stesso tipo di indumento era stato lì. La domanda era: si trattava della stessa persona? In caso affermativo, non poteva essere un possibile inquilino, perché il capitano aveva detto che l’appartamento era stato bloccato per un anno. Il motivo non era ben chiaro. A meno che, insieme alla lettera, il padre avesse inviato al figlio anche le chiavi della sua casa. In quella eventualità, la giacca verde era stata in quell’appartamento addosso alla persona che stavano disperatamente inseguendo.
Lasciò volutamente fuori da quell’analisi la voce preoccupata e tesa di padre McKean, anche se continuava a risuonarle nelle orecchie.
È una cosa legata a quelle esplosioni, che Dio mi assolva…
Non sapeva che aspettarsi. Ma non vedeva l’ora di arrivare per saperlo.
Il tempo e la velocità sembravano svilupparsi con due modalità opposte.
Uno era troppo veloce, l’altra troppo lenta. Provò ancora una volta a chiamare Russell. Più per passare il tempo che per vero interesse, si disse.
Niente.
Il telefono era spento o non raggiungibile. Cedette alla sua umanità e si concesse la fantasia di essere altrove, con lui, in un qualsiasi posto dove non arrivassero gli echi del mondo e le grida delle vittime. Sentì un flusso caldo di desiderio arrivare a lambirle l’inguine. Si disse che questo era sbagliato, ma era l’unico segnale che aveva, dopo tanto tempo, di essere ancora viva.
Quando imboccò la strada sterrata e dopo un paio di curve le apparve il tetto di Joy, una improvvisa ansia la prese. Di colpo non fu più del tutto certa di voler conoscere quello che padre McKean aveva da dirle. Rallentò per non arrivare nel cortile seguita da uno strascico di polvere. Il sacerdote la stava aspettando all’inizio del giardino, una macchia nera nel verde della vegetazione e sotto l’azzurro del cielo. Vide che indossava l’abito talare, quella veste lunga che una Chiesa al passo con i tempi aveva concesso ai sacerdoti di sostituire talvolta con abiti più comodi e moderni. Mentre scendeva dalla macchina e andava verso di lui, Vivien ebbe l’impressione che quella scelta non fosse casuale, che avesse un significato preciso.
Come se padre McKean avesse in qualche modo bisogno di rincorrere la propria identità e lo facesse con tutti i mezzi che aveva a disposizione.
Quando gli arrivò vicino, si accorse che le sue supposizioni non dovevano essere lontane dalla realtà. Gli occhi dell’uomo che si trovava di fronte erano spenti, fuggitivi, casuali. Nemmeno l’ombra della vitalità e della benevolenza che di solito erano parte integrante del suo essere.
«Meno male che sei arrivata.»
«Michael, che c’è di tanto urgente? Che ti succede?»
Padre McKean si guardò intorno. Un paio di ragazzi in fondo al giardino stavano riparando una griglia di recinzione. Un terzo stava in piedi accanto a loro e porgeva gli attrezzi che di volta in volta gli venivano richiesti.
«Non qui. Seguimi.»
Passò oltre e procedette verso la casa. Superarono l’ingresso e si trovarono di fronte la porta del locale di fianco all’ufficio, che fungeva da piccola infermeria. Il prete la aprì e la precedette all’interno.
«Ecco, vieni. Qui non ci disturberà nessuno.»
Vivien lo seguì. La stanza era tutta bianca. Bianche le pareti e il soffitto e alla destra, addossato al muro, un lettino in metallo coperto da un lenzuolo pure bianco. Poco oltre, nell’angolo, c’era un vecchio paravento da ospedale, restaurato e rivestito di tela ancora bianca. Dalla parte opposta un armadietto per i medicinali, dello stesso colore. Il vestito del sacerdote spiccava come una macchia d’inchiostro sulla neve.