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Michael McKean, un sacerdote che aveva perso ogni certezza, vide all’orizzonte risplendere una speranza.

«Ma quell’uomo, quando lo avrete preso, dirà tutto.»

«E chi gli crederà, dal momento che tu e io negheremo ogni cosa? Ho un’altra testimone che ha visto altrove un tipo con la giacca verde e posso scaricare su di lei tutto il merito. Tu ne usciresti pulito.»

Il reverendo rimase in silenzio, esaminando quella proposta come se Vivien fosse davanti a lui tendendogli con la mano una mela.

«Non so, Vivien. Non so più niente.»

Vivien gli mise le mani sulle braccia e le strinse forte.

«Michael, non posso essere io a farti delle prediche. Per tutta la mia vita sono andata in chiesa poco e male. Ma di una cosa sono certa. Tu stai sottraendo alla morte molte vite umane e quel Cristo che è morto in croce per salvare tutto il mondo non potrà non perdonarti.»

La risposta arrivò dopo un istante lungo come l’eternità a cui il sacerdote insegnava a credere.

«Va bene. Lo farò.»

Vivien sentì la gratitudine e la liberazione invaderla e si trattenne a stento dall’abbracciare padre McKean, che non era mai stato così vicino agli uomini come in quel momento in cui credeva che la sua anima si fosse allontanata da Dio.

«Che ne dici adesso di uscire in giardino? Ho una voglia pazza di vedere mia nipote.»

«I ragazzi stanno per andare a pranzo. Vuoi fermarti con noi?»

Vivien si rese conto di avere fame. L’ottimismo le aveva aperto lo stomaco.

«Con grande piacere. La cucina della signora Carrara merita sempre di essere onorata.»

Senza dire altro, uscirono dalla stanza e chiusero l’uscio alle loro spalle.

Dopo qualche istante, la figura di John Kortighan sbucò da dietro il paravento. Rimase per qualche istante a guardare la porta, con le sopracciglia aggrottate e gli occhi umidi. Poi si sedette sul lettino e, come se quel gesto gli costasse una fatica immensa, nascose il viso fra le mani.

CAPITOLO 31

Seduto su una comoda poltroncina rossa, Russell attendeva.

Era abituato a farlo. Aveva atteso per anni, senza nemmeno sapere cosa stesse aspettando. Forse senza nemmeno rendersi conto del semplice fatto di essere in attesa. Continuando per tutto quel tempo a guardare il mondo come uno spettatore timoroso che nascondeva le sue paure dietro al sarcasmo, così stordito da una vita sempre di corsa da ignorare che il solo modo per scordare i propri problemi era risolverli. Capirlo gli aveva fatto allargare dentro una nuova sicurezza e di conseguenza una calma inusuale.

E infatti, anche adesso che l’impazienza gli mordeva il respiro, era seduto tranquillo e osservava con aria indifferente l’ambiente intorno a sé.

Si trovava nella saletta di attesa di un ufficio ultramoderno, progettato e arredato da Philippe Starck, che occupava un intero piano di un elegante grattacielo sulla 50sima Strada. Cristalli, cuoio, dorature, un briciolo di ragionato kitsch e di follia voluta. Nell’aria un vago profumo di menta e cedro. Segretarie dall’aspetto gradevole e funzionari dall’aria adeguata.

Tutto era stato realizzato nel modo giusto per accogliere e stupire i visitatori.

Era la sede di New York della Wade Enterprise, la società di suo padre.

Un’impresa con sede a Boston e con diversi uffici di rappresentanza nelle maggiori città degli Stati Uniti e in diverse capitali del mondo. Gli interessi dell’azienda si ramificavano in molteplici direzioni, dall’edilizia alle forniture di tecnologia all’esercito, dalla finanza al commercio di materie prime, con il petrolio al primo posto.

Chinò la testa a guardare una moquette color tabacco con il logo della società che di certo era costata un occhio della testa. Oppure era arrivata al prezzo di fabbrica perché era stata prodotta in una delle aziende del gruppo. Tutto intorno a lui era un silenzioso e discreto atto di omaggio al Dio Denaro e ai suoi adoratori. Li conosceva bene e sapeva quanto potessero essergli fedeli.

Invece a Russell non era mai importato molto dei soldi. Ora più che mai.

L’unica cosa che gli interessava era che non voleva più sentirsi un fallito.

Mai più.

Quella era stata la sua vita da sempre. Dappertutto si era trovato nell’ombra. Di suo padre, di suo fratello, del nome che portava, del grande palazzo sede della società a Boston. Dell’ala protettrice di sua madre, che fino a un certo punto era riuscita a superare il dispiacere e l’imbarazzo in cui alcuni suoi atteggiamenti l’avevano fatta precipitare. Adesso era giunto il momento di togliersi da quell’ombra e correre i propri rischi. Non si era chiesto che cosa avrebbe fatto Robert in quelle circostanze. Lo sapeva per conto suo. L’unico modo possibile per raccontare al mondo la storia che aveva fra le mani era arrivare alla fine e poi cominciare dall’inizio.

Da solo.

Quando finalmente l’aveva realizzato, il ricordo di suo fratello era cambiato. L’aveva sempre talmente idealizzato da rifiutarsi di considerarlo una persona, con tutti i suoi pregi e con tutti i difetti che per anni si era ostinato a non vedere. Adesso non era più un mito, ma un amico il cui ricordo camminava al suo fianco, un punto di riferimento e non un idolo dal piedistallo troppo alto.

Un uomo calvo con gli occhiali e un inappuntabile abito blu entrò e raggiunse la reception. Vide la donna che lo aveva accolto alzarsi dalla sua postazione e accompagnarlo nella saletta.

«Ecco, signor Klee. Se ha la cortesia di attendere qualche istante, il signor Roberts la riceverà subito.»

L’uomo fece un cenno di ringraziamento e mosse lo sguardo in cerca di un posto dove sedersi. Quando lo vide, lanciò un’occhiata disgustata ai suoi abiti spiegazzati e andò a sedersi nella poltrona più lontana. Russell sapeva che la sua presenza in quell’ufficio era una nota stonata nel regno ovattato dell’armonia e del buon gusto. Gli venne da sorridere. Sembrava che il suo maggiore talento fosse da sempre quello di essere un contrattempo per il mondo.

Gli tornarono di prepotenza alla mente le parole di Vivien, la sera in cui a casa sua l’aveva baciata.

L’unica cosa che so è che non voglio complicazioni…

Lui aveva dichiarato la stessa cosa, ma nello stesso tempo sapeva di mentire. Sentiva che Vivien era una storia nuova, un ponte che aveva desiderio di attraversare per scoprire chi ci fosse dall’altra parte. Per la prima volta nella sua vita, non era fuggito. E aveva pagato sulla sua pelle quello che sovente aveva fatto patire ad altre donne. Con in bocca il gusto amaro dell’ironia, confuse nell’imbarazzo, si era sentito dire parole che anche lui aveva pronunciato molte volte prima di girare la schiena e andarsene. Non aveva nemmeno permesso a Vivien di finire il suo discorso. Per non essere ferito, aveva preferito ferire. Dopo, era rimasto seduto nell’auto a guardare fuori dal finestrino, sentendosi solo e inutile. A dibattere dentro di sé la sola verità: quella notte gli era rimasta cucita addosso come un abito su misura e, nonostante tutto, le complicazioni erano arrivate.

Solo per lui, a quanto pareva.

Quando davanti ai suoi occhi Vivien si era trasformata di colpo in una persona che non conosceva, era uscito dall’appartamento sulla Broadway ucciso dalla delusione e dal rancore. Era entrato in un bar dall’aria improbabile con il desiderio di prendere qualcosa da bere, qualcosa dal sapore forte che scendesse a scaldare quel nocciolo freddo che sentiva nello stomaco. Tutti i suoi propositi erano naufragati nel tempo impiegato dal barman per arrivare fino a lui. Aveva chiesto un caffè e si era messo a riflettere su come muoversi. Non aveva nessuna intenzione di rinunciare alla sua ricerca ma era conscio delle difficoltà che si trovava davanti per arrivare a un risultato con le sue sole forze. A malincuore, aveva dovuto ammettere che l’unica strada percorribile era ricorrere alla sua famiglia.