Il cellulare era scarico, sia di batteria che di credito, ma aveva visto che in fondo al bar c’era un telefono a gettone. Aveva pagato il caffè e si era fatto dare una manciata di quarti di dollaro. Poi si era avviato a fare una delle telefonate più difficili della sua vita.
Le monete erano scese nella feritoia con il rumore della speranza e aveva composto il numero di casa sua a Boston premendo i tasti come un marconista che da una nave lanciava nell’etere un disperato SOS.
Naturalmente aveva risposto la voce impersonale di un domestico.
«Wade Mansion. Buongiorno.»
«Buongiorno. Sono Russell Wade.»
«Buongiorno, signor Russell. Sono Henry. Cosa posso fare per lei?»
Il viso compito del maggiordomo si era sovrapposto ai cartelli pubblicitari davanti a lui. Di media statura, preciso, inappuntabile. La persona giusta per dirigere una casa complicata come l’abitazione della famiglia Wade.
«Vorrei parlare con mia madre.»
Un comprensibile attimo di silenzio. La servitù, come si ostinava a chiamarla sua madre, era dotata di un ufficio informazioni molto efficiente.
Di certo tutti sapevano della difficoltà dei suoi rapporti con i genitori.
«Vedo se la signora è in casa.»
Russell aveva sorriso davanti a quella ennesima dimostrazione di diplomazia del domestico. In realtà la sua risposta prudente avrebbe dovuto essere tradotta con «Vedo se la signora le vuole parlare».
Dopo un tempo che gli parve interminabile e un altro paio di quarti di dollaro
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ingoiati dal telefono, arrivò la voce gentile ma sospettosa di sua madre.
«Ciao, Russell.»
«Ciao, mamma. Sono contento di sentirti.»
«Anche io. Che ti succede?»
«Ho bisogno del tuo aiuto, mamma.»
Silenzio. Un comprensibile silenzio.
«Lo so che in passato ho abusato del tuo sostegno. E l’ho ripagato molto male. Ma questa volta non voglio denaro, non mi serve assistenza legale.
Non sono nei pasticci.»
Una nota di curiosità nella voce aristocratica di sua madre.
«Allora che ti serve?»
«Ho bisogno di parlare con papà. Se telefono in ufficio, come sentono il mio nome mi dicono che non c’è o che è in riunione o che è sulla luna.»
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La curiosità della donna si era trasformata di colpo in apprensione.
«Che vuoi da tuo padre?»
«Mi serve il suo aiuto. Per una cosa seria. La prima vera cosa seria della mia vita.»
«Non lo so, Russell. Forse non è una buona idea.»
Aveva capito l’esitazione di sua madre. E in qualche modo l’aveva scusata. Era fra l’incudine del marito probo e il martello del figlio scapestrato. Ma non poteva darsi per vinto, a costo di implorare.
«Mi rendo conto che non ho mai fatto nulla per meritarla, ma ho bisogno della tua fiducia.»
Dopo qualche istante, la voce aristocratica di Margareth Taylor Wade gli portò attraverso il telefono la sua resa.
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«Tuo padre è nella sede di New York per un paio di giorni. Ora gli parlo e ti richiamo.»
Russell aveva sentito l’euforia allargarsi dentro con un effetto più efficace di qualunque bevanda alcolica. Quello era un inaspettato colpo di fortuna.
«Ho il cellulare scarico. Digli solo che io vado in ufficio e aspetto lì che mi riceva. Non me ne andrò finché non l’avrà fatto, dovessi aspettare tutta la giornata.»
Fece una pausa. Poi disse una cosa che non aveva detto più da anni.
«Grazie, mamma.»
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Non aveva avuto tempo di sentire la risposta, perché l’ultima moneta era caduta insieme alla comunicazione.
Era uscito in strada e aveva investito gli ultimi dollari a sua disposizione in una corsa in taxi fino alla 50sima Strada. E adesso era lì da due ore, sotto lo sguardo di persone come il signor Klee, ad attendere che suo padre gli concedesse udienza. Sapeva che non lo avrebbe fatto subito, che non si sarebbe fatto scappare l’occasione di infliggergli una umiliante attesa. Ma lui non si sentiva affatto umiliato, solo impaziente.
E aveva atteso.
Una segretaria alta ed elegante si materializzò davanti a lui. La moquette aveva attutito il rumore dei suoi tacchi nel corridoio. Era bella, adeguata all’ambiente e doveva essere anche capace, se l’avevano scelta per quel lavoro.
«Signor Russell, venga pure. Il signor Wade la sta aspettando.»
Si rese conto che finché suo padre fosse stato vivo, sarebbe esistito un unico e solo «Signor Wade». Ma lui aveva la possibilità di cambiare quello stato di cose. Lo voleva con tutte le sue forze.
Si alzò dalla poltrona e seguì l’assistente in un lungo corridoio. Mentre guardava il sedere della ragazza muoversi con garbo sotto la gonna, gli venne da sorridere. Forse pochi giorni prima si sarebbe esibito in qualche commento di dubbio gusto, tale da mettere in difficoltà quella giovane donna e fare di conseguenza un dispetto a suo padre. Poi ricordò a se stesso che fino a qualche giorno prima non si sarebbe mai sognato di entrare in quell’ufficio e di incontrare Jenson Wade.
La segretaria si fermò davanti a una porta in legno scuro. Bussò leggermente e, senza attendere un segnale dall’interno, aprì il battente e gli fece segno di entrare. Russell fece un paio di passi, sentendo il fruscio della porta che si richiudeva.
Il capo di quell’impero economico stava seduto dietro una scrivania messa in diagonale, con alle spalle due vetrate d’angolo che offrivano una vista mozzafiato sulla città. Il controluce era compensato da lampade messe ad arte nella grande stanza che era uno dei ponti di comando di suo padre. Da molto tempo non si incontravano di persona. Era un poco invecchiato ma in una forma ineccepibile. Rimase a osservarlo mentre continuava a leggere dei documenti, ignorandolo del tutto. Jenson Wade era il ritratto di suo figlio minore. O meglio, era Russell a portare in giro una somiglianza che in passato si era rivelata in più occasioni scomoda per tutti e due.
Il solo e unico signor Wade alzò la testa e lo guardò con occhi fermi, senza concessioni.
«Che vuoi?»
Suo padre non amava i preamboli. E Russell non ne fece uso.
«Ho bisogno di aiuto. E tu sei la sola persona che conosco che me lo può dare.»
La risposta arrivò secca e scontata.
«Non avrai un centesimo da me.»
Russell scosse la testa. Nessuno lo aveva invitato a farlo, ma lui scelse con calma una poltrona e si sedette.
«Non me ne serve nemmeno uno.»
Quell’uomo senza affetto lo fissava dritto negli occhi. Di certo si stava chiedendo che cosa Russell avesse architettato questa volta. Ma si trovava inaspettatamente di fronte a una novità. Prima di allora suo figlio non aveva mai avuto la forza di sostenere lo sguardo.
«Che vuoi allora?»
«Sto seguendo una pista per un reportage giornalistico. Una cosa grossa.»
«Tu?»
In quel monosillabo incredulo c’erano anni di foto sui giornali scandalistici, parcelle di avvocati, fiducia tradita, denaro gettato al vento.
Gli anni passati a piangere due figli: uno perché era morto, l’altro perché stava facendo di tutto per farsi considerare tale.
E alla fine c’era riuscito.
«Sì. Posso aggiungere che molte persone moriranno, se non ottengo il tuo aiuto.»
«In che guaio ti sei cacciato, stavolta?»
«Non sono in un guaio. Ma c’è tanta altra gente che non sa di esserci.»
La curiosità iniziava ad affiorare negli occhi sospettosi di Jenson Wade.
La sua voce si ammorbidì un poco. Forse aveva intuito che la persona che si trovava di fronte aveva una fermezza diversa dal Russell che era abituato a conoscere. In ogni caso le troppe delusioni passate gli imponevano di muoversi con estrema cautela.