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Con un’altra donna.

Ma visto che sei con me, possiamo ritenerci tutti e due in servizio, per cui niente alcol…

Mangiò ricordando e masticando, due pessime attività da fare insieme, specie con i pensieri che gli attraversavano la testa. Si costrinse a finire il cibo, ricordando il consiglio di Vivien. Da quel momento in poi, non sapeva quando avrebbe avuto la possibilità di mangiare di nuovo.

Si alzò e tornò alla finestra. Rimase tutto il tempo a guardare fuori, cercando di vincere l’impazienza e di allontanare il viso di Vivien dalla sua mente. Senza risultato in entrambi i casi.

Lo sorprese l’ingresso di suo padre nell’ufficio. Russell controllò l’orologio e si accorse che era passata quasi un’ora e mezza da che era uscito.

«Il generale ha chiamato. Ho detto di passarmelo qui.»

Si diresse a passo veloce verso la scrivania, si sedette e attivò il vivavoce.

«Eccomi. Hai notizie?»

«Sì.»

«Di che si tratta?»

«Una normale faccenda di panni sporchi dell’esercito.»

«Vale a dire?»

Si udì un rumore di carta stropicciata.

«Ecco qui. Wendell Johnson nato a Hornell il 7 giugno 1948. Abitava lì quando è stato chiamato sotto le armi. Faceva parte dell’11° Reggimento Cavalleria Meccanizzata di stanza a Xuan-Loc. Qualifica 1Y. Apparteneva al MOS, il Military Occupational Specialty.»

Russell fece il gesto di stringere.

«Vieni al sodo. Che gli è successo?»

«Questi dati relativi alla persona me li sono segnati. Per il resto ti dico quello che ricordo. Non ho potuto aver accesso diretto all’incartamento. Ci sono arrivato per vie traverse, per cui posso solo riportare quello che è stato detto a me.»

«Sì, ma fallo, Cristo santo.»

La voce del generale si adeguò al’urgenza del suo interlocutore.

«Nel 1971 il plotone di Johnson partecipò a un’azione a nord del Distretto di Cu Chi, sconsigliata dal servizio di intelligence ma predisposta lo stesso dai ranghi militari. Furono tutti massacrati, a parte lui e un altro soldato. Sono stati fatti prigionieri e in un secondo tempo usati dai vietcong come scudi umani contro un bombardamento.»

Russell avrebbe voluto porre direttamente le domande al generale, ma non poteva farlo per ovvi motivi. Prese un blocco di carta e una penna dalla scrivania e scrisse

poi?

e mise il foglio davanti a suo padre. Lui fece con la testa cenno di aver capito.

«E poi?»

«La persona che ha ordinato l’incursione aerea, il maggiore Mistnick, sapeva dai ricognitori della loro presenza in quel posto ma ha fatto finta di nulla. Gli aerei sono arrivati e hanno sparso il napalm su tutta la zona.

Quell’ufficiale aveva in diverse occasioni dato segni di squilibrio, per cui è stato rimosso e il tutto nascosto, nel disagio collettivo, dietro il segreto militare. Era un periodo in cui la guerra era sotto accusa da parte di tutta l’opinione pubblica mondiale. Non mi stupisco affatto che sia andata in quel modo.»

Russell scrisse un’altra frase

e quei due?

Anche stavolta Jenson Wade trasformò in voce quel pensiero.

«E che è successo a quei due?»

«Johnson è rimasto ustionato ed è stato soccorso dalle truppe che sono arrivate in loco subito dopo. Lo hanno salvato per miracolo ed è stato un bel po’ ricoverato in un ospedale militare per la riabilitazione, non ricordo dove.»

Arrivò un nuovo foglio.

l’altro?

«E quell’altro che fine ha fatto?»

«È morto carbonizzato.»

Con mano tremante Russell scrisse la cosa che lo interessava di più.

il nome?

«Sai come si chiamava?»

«Aspetta, mi sono segnato anche quello. Ecco…»

Un rumore di carta sfogliata. Poi il suono benedetto di una voce che diceva un nome.

«Matt Corey, nato a Corbett Place il 27 aprile 1948 e residente a Chillicothe, in Ohio.»

Russell segnò velocemente quei dati e poi fece un gesto di esultanza alzando le braccia al cielo. Subito dopo puntò verso il padre il pugno destro con il pollice alzato.

«Va bene, Geoffry. Ti ringrazio, per ora. Vediamoci, per quella partita di golf.»

«Quando vuoi, vecchio mio.»

Un pulsante eliminò dall’ufficio la presenza del generale Hetch, lasciando nell’aria le sue ultime parole. Jenson Wade si rilassò contro lo schienale della sedia. Russell stringeva incredulo fra le mani quel nome che avevano inseguito così a lungo.

«Devo andare a Chillicothe.»

Suo padre lo guardò un istante, valutando quella persona nuova che a sorpresa si trovava di fronte. Poi indicò con l’indice il soffitto.

«Questo è un palazzo di uffici e sul tetto abbiamo una pista d’atterraggio, invece della piscina. Se vai su, posso farti venire a prendere dal nostro elicottero entro dieci minuti.»

Russell rimase incredulo. Quell’offerta inaspettata di aiuto gli mise addosso una energia e una lucidità di cui non si credeva capace. Alzò la mano a guardare l’orologio.

«Per arrivare in Ohio saranno più o meno cinquecento miglia, in linea d’aria. Ce la facciamo ad arrivare prima che faccia buio?»

Un gesto delle spalle che valeva qualche miliardo di dollari.

«Non c’è problema. L’elicottero ti porterà al La Guardia dove ci sono i jet della compagnia. Ti farò sbarcare all’aeroporto più vicino a Chillicothe.

Mentre sei in viaggio chiederò alla mia assistente di farti trovare una macchina dove atterrerai.»

Russell si trovò senza parole in piedi davanti alla scrivania dell’uomo che più aveva temuto nella sua vita. Disse l’unica cosa che gli veniva in mente.

«Non so come ringraziarti.»

«Un modo ce l’hai.»

Jenson Wade tirò fuori dalla tasca interna della giacca il foglio con l’impegno di Russell, si sporse e lo appoggiò nel centro della scrivania. Poi tornò ad appoggiarsi allo schienale in pelle con un’espressione soddisfatta in viso.

«Lavorerai per me per i prossimi tre anni, ricordi?»

CAPITOLO 32

«Hai una sigaretta?»

Russell si svegliò chiedendosi chi cazzo…

Una faccia smunta con le guance coperte da una barba sparsa a casaccio era a una spanna dal suo viso. Due occhi piccoli e cisposi lo guardavano.

Un tatuaggio saliva dal colletto sudicio della camicia verso l’orecchio sinistro. Il fiato sapeva di alcol e denti cariati.

«Cosa?»

«Hai una sigaretta?»

Russell realizzò di colpo dove si trovava. Si mise a sedere, sentendo le giunture scricchiolare. Una notte passata sul giaciglio di una cella non era il massimo del conforto per il corpo. Quando era stato arrestato, la sera prima, quel tipo magro e male in arnese non c’era. Dovevano averlo portato in prigione mentre lui dormiva. Era talmente stanco che non aveva sentito nulla.

L’uomo confermò la dedizione al tabagismo continuando la sua caccia al fumo con voce roca.

«Allora, ce l’hai questa sigaretta o no?»

Russell si alzò in piedi. L’uomo d’istinto fece un passo indietro.

«Non si può fumare qui.»

«Ragazzo, sono già in galera. Cosa vuoi che facciano, che mi arrestino?»

Il suo compagno di cella sottolineò la sua battuta con una risata catarrosa. Russell non aveva sigarette e umore per continuare a discutere.

«Lasciami in pace.»

Vedendo che non avrebbe ricavato nulla, brontolando un personale e incomprensibile anatema, l’uomo andò a sdraiarsi sul lettino accostato al muro di fronte. Girò la schiena e rimase steso con una giacca arrotolata sotto la testa a fare da cuscino.