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«Ho ragione di credere che, per un motivo a cui non so dare una spiegazione, le piastrine dei due siano state confuse. Matt Corey è stato dichiarato morto e tutti hanno creduto che quello sopravvissuto fosse Wendell Johnson. E lui, quando si è ripreso, ha avallato questo scambio di identità. Non c’erano foto o impronte che potessero smentirlo. Il suo viso era completamente deturpato e di impronte forse non ne aveva più.»

Nella stanza cadde il silenzio. Quello che evoca i ricordi e favorisce il volo dei fantasmi. Ben Shepard permise a una lacrima ferma da anni di rotolare dai suoi occhi fino a bagnare le foto.

«Signor Shepard…»

Il vecchio lo interruppe e lo guardò con occhi non corrotti né dall’età né dagli uomini.

«Ben.»

Quell’invito voleva dire che, per una strana alchimia che a volte si crea fra persone fino a un attimo prima sconosciute, da quel momento in poi fra loro non ci sarebbero state soltanto parole. Alla luce di questa inattesa confidenza, Russell fece scivolare la domanda con la voce più calma che gli riuscì di trovare.

«Ben, quando è l’ultima volta che hai visto Matt Corey?»

Il vecchio ci mise un’eternità a rispondere.

«Nell’estate del 1972, subito dopo che è uscito dall’ospedale militare.»

Dopo quell’ammissione, il vecchio si decise infine a versare del caffè anche per sé. Prese la tazza e bevve un lungo sorso.

«È venuto da me e mi ha raccontato la stessa storia che hai appena finito di dire. Poi ha preso il gatto e se n’è andato. Non l’ho mai più rivisto.»

Russell decise che Ben Shepard non era capace di mentire e che quella che gli aveva riferito, se non era una bugia, era solo una mezza verità. Ma nello stesso tempo capì che se avesse sbagliato qualcosa, quell’uomo si sarebbe chiuso come un riccio e non ne avrebbe ricavato più niente.

«Ti risulta che Matt avesse un figlio?»

«No.»

Il modo in cui Ben Shepard portò di nuovo la tazza alla bocca subito dopo aver pronunciato quel monosillabo sembrò a Russell un poco troppo precipitoso. Capì che l’unica possibilità era mettere al corrente quell’uomo dell’estrema importanza di ogni informazione in suo possesso.

E c’era un solo modo per farlo.

«Ben, so che sei un uomo d’onore, nella migliore accezione di questo termine. E a questo io intendo rendere merito. Ti dirò qualcosa che, se tu non fossi l’uomo che penso, non ti avrei mai rivelato.»

Ben fece un gesto con la tazza per ringraziarlo e invitarlo a continuare.

«È una storia difficile da raccontare, perché è una storia difficile da credere.»

Lo disse a favore dell’uomo che aveva davanti ma nello stesso tempo confermò a se stesso l’umana assurdità di tutta quella storia. E la necessità assoluta di venirne a capo.

«Hai seguito le notizie degli attentati a New York?»

Ben fece un cenno con la testa.

«Sì. Brutta faccenda.»

Russell tirò un respiro, prima di continuare. Non poteva farlo fisicamente, ma nella sua mente aveva le dita incrociate. Guardò Ben dritto negli occhi.

«Matt Corey, dopo il vostro ultimo incontro, si è trasferito lì e per tutta la vita ha continuato a lavorare nell’edilizia.»

Il vecchio, istintivamente, si compiacque.

«Era bravissimo. Era nato per quello. Ne capiva alla sua età più di tanta gente che ha studiato.»

C’erano affetto e rimpianto sul viso di Ben Shepard. Invece Russell sentiva l’ansia tendere il suo. Fece attenzione che quello che stava per dire sembrasse una compassionevole constatazione e non un insulto.

«Matt era una persona molto malata, Ben. E dopo quello che gli è successo, la solitudine in cui è vissuto per tutto quel tempo ha peggiorato il disordine mentale in cui era caduto. Nel corso del suo lavoro ha disseminato di bombe molti dei palazzi che ha costruito. New York ne è piena. Sei mesi dopo la sua morte hanno iniziato a esplodere.»

Il viso del vecchio si fece di colpo smorto. Russell gli lasciò il tempo di metabolizzare quella notizia. Infine, cercò di trasmettergli tutta la convinzione di cui disponeva.

«Se non troviamo il figlio di Matt Corey, quelle esplosioni continueranno.»

Ben Shepard appoggiò la tazza sul tavolino accanto a lui, poi si alzò e andò alla finestra. Rimase qualche istante a guardare fuori dai vetri e ad ascoltare. Forse era il canto degli uccelli o il battito del cuore o forse il vento fra i rami. Oppure qualcosa che non veniva da fuori ma veniva da dentro. Forse nella sua mente lucida risuonavano le ultime parole che lui e Matt Corey si erano detti, molti anni prima.

Russell ritenne opportuno chiarire qual era il suo ruolo in quella storia.

«Sono qui perché sto lavorando in collaborazione con la Polizia di New York. Mi è stato concesso questo privilegio perché ho portato io le indagini verso la loro soluzione. Se ne parli con me, hai la mia parola d’onore che dirò lo stretto necessario per fermare gli attentati, senza tirarti in mezzo.»

Ancora spalle e silenzio. Russell sottolineò con dei numeri la gravità della situazione.

«Sono morte più di cento persone, Ben. E altre ne moriranno. Non so dire quante, ma la prossima volta potrebbe essere una strage ancora più grande.»

Il vecchio iniziò a parlare senza voltarsi.

«Quando l’ho conosciuto, Matt era in riformatorio su a nord, ai confini dello Stato. Avevo vinto l’appalto per una ristrutturazione. Quando siamo arrivati e abbiamo iniziato a montare i ponteggi, gli altri ragazzi ci guardavano con diffidenza. Alcuni ci prendevano in giro. Lui invece era interessato ai lavori che vedeva procedere ogni giorno sotto i suoi occhi.

Mi faceva delle domande, voleva sapere quello che stavamo facendo e come lo stavamo facendo. Infine mi sono convinto e ho chiesto al direttore se poteva lavorare con noi. Dopo qualche tentennamento il direttore ha dato il suo consenso, avvertendomi che quel ragazzo era un tipo difficile.

Aveva una storia famigliare alle spalle che avrebbe fatto rabbrividire chiunque.»

Russell si rese conto che Ben stava rivivendo un momento importante della sua vita. Senza sapere perché, era certo di essere la prima persona che aveva accesso a quelle informazioni e a quelle emozioni.

«Mi sono affezionato a quel ragazzo. Era taciturno e ombroso ma imparava il lavoro molto in fretta. Quando è uscito dal riformatorio l’ho preso a lavorare stabilmente con me. Gli ho dato quella stanza al capannone. Aveva gli occhi che gli brillavano, quando c’è entrato per la prima volta. Era il primo posto veramente suo da che stava al mondo.»

Il vecchio si staccò dalla finestra e tornò a sedersi davanti a Russell.

«Matt è diventato poco alla volta il figlio che non avevo. E il mio braccio destro. Sono stati gli operai a dargli il soprannome di Little Boss, per come dirigeva i lavori in mia assenza. Se fosse rimasto, gli avrei lasciato l’impresa, piuttosto di venderla a quel coglione che l’ha comprata.

Invece un giorno mi disse che sarebbe partito volontario per il Vietnam.»

«Volontario? Non lo sapevo.»

«Questa è la parte schifosa della storia. Una di quelle che ti fanno vergognare di essere un uomo.»

Russell rimase in silenzio e in attesa. Il suo interlocutore aveva deciso di condividere con lui un boccone amaro, che per tutto quel tempo non era riuscito a mandare giù da solo.

«Un giorno siamo stati chiamati per dei lavori di ampliamento della casa del giudice di contea. Herbert Lewis Swanson, Dio lo maledica dov’è. In quel periodo Matt ha conosciuto Karen, la figlia del giudice. Ero presente la prima volta che si sono incontrati. Ho subito capito che fra loro era successo qualcosa. E ho subito capito che quel qualcosa non poteva portare che guai.»

Il vecchio sorrise al ricordo di quell’amore. Russell immaginò lo stesso sorriso tenero sul volto del frate che sapeva della storia fra Giulietta e Romeo.

«Hanno iniziato a vedersi di nascosto. Sono stati forse i pochi momenti felici nella vita di Matt Corey. A volte mi illudo e spero che lo siano stati anche quelli che ha passato con me.»