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Avanzò nella semioscurità, badando a dove metteva i piedi, verso una porta sul lato destro. Sforzandosi di non pensare che quel posto ruvido e spigoloso per lui aveva significato tutto quello che altri ragazzi trovavano in una bella casa dalle pareti tinteggiate di fresco e in una macchina parcheggiata nel garage.

Oltre quella soglia, attaccata al muro del capannone come un mollusco a uno scoglio, c’era un’unica grande stanza con una sola finestra protetta da un’inferriata. Un angolo cottura e un bagno ai lati opposti completavano la pianta della sua dimora abituale. Quando di quel posto era diventato custode, operaio e unico inquilino.

Arrivò alla porta e la spinse.

E rimase a bocca aperta per lo stupore.

Qui le forme erano più nette. La luce dei lampioni del parcheggio che entrava dalla finestra mandava quasi tutte le ombre a rintanarsi negli angoli.

La stanza era in perfetto ordine, come se fosse uscito ore e non anni prima. Non c’era per aria l’idea pruriginosa della polvere e saltavano agli occhi i segni di una pulizia frequente e accurata. Solo il letto era coperto da un telo di plastica trasparente.

Stava per muovere un nuovo passo nella sua vecchia casa, quando di colpo sentì qualcosa urtarlo e strisciargli veloce in mezzo alle gambe.

Subito dopo una sagoma scura saltò sul letto, facendo frusciare la plastica.

Chiuse la porta, si avvicinò al tavolino da notte e accese la lampada accanto al letto. Dalla luce tenue che si aggiunse a quella esterna emerse il muso di un grosso gatto nero, che lo guardava con due enormi occhi verdi.

«Walzer. Cristo santo, ci sei ancora.»

Senza paura, l’animale si avvicinò camminando leggermente di traverso per annusarlo. Lui allungò la mano per afferrarlo e il micio si lasciò prendere senza accennare reazione. Si sedette sul letto e se lo tirò sulle ginocchia. Iniziò a grattarlo con delicatezza sotto il mento e quello subito si mise a ronfare, come sapeva avrebbe fatto.

«Ti piace ancora, eh? Sei rimasto il godurioso filosofo che eri.»

Mentre lo accarezzava, con l’altra mano arrivò al punto dove avrebbe dovuto esserci la zampa posteriore destra.

«Vedo che non ti è ricresciuta, nel frattempo.»

Legata al nome di quel gatto c’era una strana storia. Stava facendo per conto di Ben una riparazione nello studio della dottoressa Peterson, la veterinaria. Era arrivata una coppia con un gattino avvolto in una coperta tutta insanguinata. Un cane di grossa taglia era entrato nel loro giardino e lo aveva azzannato, forse facendogli pagare la sola colpa di esistere. Il gatto era stato visitato e subito dopo sottoposto a un intervento chirurgico, ma non era stato possibile salvargli la zampa. Quando la dottoressa era uscita dalla sala operatoria e lo aveva annunciato ai proprietari, i due si erano guardati con l’aria imbarazzata.

Poi la donna, una tipa slavata con un twin-set azzurro, che cercava invano di correggere col rossetto due labbra troppo sottili, si era rivolta con voce dubbiosa alla veterinaria.

«Senza una zampa, dice?»

Subito si era girata per cercare conferma nell’uomo che era al suo fianco.

«Che ne pensi, Sam?»

L’uomo aveva fatto un gesto vago.

«Be’, di certo quella povera bestiola soffrirebbe, senza una zampa.

Sarebbe menomato a vita. Mi chiedo se a questo punto non sarebbe addirittura meglio…»

Aveva lasciato la frase in sospeso. La dottoressa Peterson lo aveva guardato con aria interrogativa e aveva aggiunto in vece sua l’ultima parola.

«Sopprimerlo?»

I due si erano consultati con uno sguardo già pieno di sollievo. Non gli sembrava vero di aver trovato quella scappatoia, di poter spacciare come la proposta di una fonte autorevole quella che in realtà era una decisione già presa.

«Vedo che anche lei è d’accordo, dottoressa. Allora lo faccia pure. Non soffrirà vero?»

Gli occhi azzurri della veterinaria in quel momento erano di ghiaccio e la sua voce li aveva coperti di brina. Ma i due avevano troppa fretta di lasciare quel posto per accorgersene.

«No, non soffrirà.»

I due avevano pagato ed erano usciti un poco più in fretta di quanto sarebbe stato logico attendersi, accostando con delicatezza la porta. Poi un rumore di auto che giungeva da fuori aveva confermato la condanna senza possibilità di grazia per quella povera bestia. Lui aveva assistito alla scena, senza smettere di lavorare. Solo a quel punto aveva lasciato il gesso che stava impastando in un secchio e si era avvicinato a Claudine Peterson.

Tutti e due erano bianchi, lei per via del camice e lui per i segni di polvere che aveva sui vestiti.

«Non lo uccida, dottoressa. Lo prendo io.»

Lei lo aveva guardato senza parlare. I suoi occhi lo avevano frugato a lungo, prima di rispondere. Poi aveva detto due sole parole.

«Va bene.»

Si era girata ed era rientrata nello studio, lasciandolo solo e padrone di un gatto con tre zampe. Proprio da quello era nato il suo nome. Crescendo, il suo modo di camminare gli aveva ricordato il tempo del walzer: un-due-tre, un-due-tre, un-due-tre…

E Walzer era rimasto.

Stava per spostare il gatto, che continuava a fare le fusa beato di fianco a lui sul letto quando, di colpo, la porta venne spalancata da un calcio.

Walzer si spaventò e con un guizzo agile sulle sue tre zampe corse a rintanarsi sotto il letto. Una voce imperiosa si riversò nella stanza e in quello che restava delle sue orecchie.

«Chiunque tu sia, è meglio se vieni fuori con le mani bene in vista e senza fare movimenti bruschi. Ho un fucile e sono intenzionato a usarlo.»

Rimase un attimo immobile.

Poi, senza dire una parola, si alzò, avviandosi con calma verso la porta.

Poco prima di affacciarsi nel riquadro illuminato, tese le braccia verso l’alto. Quello era l’unico movimento che ancora gli procurava un poco di dolore.

E una marea di ricordi.

CAPITOLO 5

Ben Shepard si spostò dietro una betoniera, cercando di tenersi nella posizione migliore per avere sotto tiro la porta. Una goccia di sudore polveroso lungo la tempia gli ricordò quanto il capannone fosse caldo e umido. Per un attimo ebbe la tentazione di asciugarla ma preferì non staccare le mani dal Remington. Chiunque ci fosse in quella stanza, non sapeva come avrebbe reagito all’intimazione di uscire. Ma soprattutto non sapeva se fosse armato o no. Ad ogni modo, l’uomo era stato avvisato. Lui reggeva fra le mani un fucile a pompa e non gettava mai parole al vento.

Aveva fatto la guerra in Corea. Se quel tipo o quei tipi non credevano che fosse davvero intenzionato a usarlo, si sbagliavano di grosso.

Non successe nulla.

Aveva preferito non accendere luci. Nella penombra, il tempo sembrava un fatto personale fra lui e il battito del suo cuore. Attese per degli istanti che parevano covati dall’eternità.

Era stato un caso che fosse lì a quell’ora.

Stava tornando dopo una serata al bowling con la squadra per cui giocava. Era sulla Western Avenue ed era appena uscito dal North Folk Village quando sul cruscotto del suo vecchio furgone la spia dell’olio si era accesa. Se avesse continuato, avrebbe corso il rischio di grippare. A poche decine di iarde c’era il viottolo che portava al suo capannone. Lo aveva imboccato al volo, invadendo l’altra corsia per fare una larga curva e non essere costretto a frenare. Subito dopo aveva spento il motore e messo in folle per sfruttare l’abbrivio e arrivare fino al cancello.

Mentre si avvicinava all’edificio sentendo il pietrisco sotto gli pneumatici rollare con un suono sempre più grave a mano a mano che perdeva velocità, per un attimo gli era parso di vedere una luminosità scialba trasparire dai vetri. Questo aveva interrotto di colpo dei pensieri non proprio edificanti rivolti a qualunque divinità fosse preposta alla cura degli automobilisti.