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Ripeto: può essere armato e molto pericoloso.»

L’uomo confermò l’esattezza di quella descrizione con le sue parole successive, mormorate con il livore dell’odio e scandite come una condanna.

«La vendetta e la giustizia coincidono, questa volta. E le vite umane non contano nulla per me, come non hanno mai contato nulla per voi.»

Ancora la voce di Michael McKean.

«Ma non senti la santità di questo luogo? Non trovi quella pace che cerchi almeno qui, nella chiesa dedicata a Saint John the Baptist, l’uomo che nella sua modestia si è dichiarato indegno di battezzare il Cristo?»

Vivien si sentì mancare. Saint John the Baptist? Ecco il motivo della chiamata del sacerdote. Voleva avvertirla che per qualche motivo non sarebbe stato a Saint Benedict, ma che aveva anticipato di un giorno la sua visita settimanale a Saint John.

Urlò al soffitto della macchina la sua sconfitta.

«Non è lì. Non è lì, maledizione.»

Sentì la voce allarmata di Bellew arrivare dalle sue spalle.

«Cosa dici, che succede?»

Gli chiese con un gesto di tacere.

«La santità è nella fine. Per questo non riposerò la domenica. E la prossima volta spariranno le stelle e tutti quelli che ci stanno sotto.»

«Che significa? Non ho capito.»

Ancora la voce, sicura di sé, bassa e minacciosa.

«Non serve capire. Basta aspettare.»

Una pausa nella quale Vivien vide morire altre persone, sentì le loro urla nel boato dell’esplosione e le vide ardere nel fuoco che le accoglieva subito dopo. E si sentì morire con loro.

La voce continuò a esporre la sua insana minaccia.

«Questo è il mio potere. Questo è il mio dovere. Questo è il mio volere.»

Ancora una pausa. Poi il delirio.

«Io sono Dio.»

Vivien allungò una mano verso la radio e cambiò la frequenza portandola su quella abituale della Polizia di Manhattan. Ripeté il messaggio che aveva appena trasmesso.

«A tutte le auto in ascolto. Sono la detective Vivien Light del 13° Distretto. Portarsi con la massima velocità possibile nel Fashion District, intorno all’isolato sulla 31sima e 32sima Strada, fra la Settima e l’Ottava Avenue. Il ricercato è un tipo di razza bianca, alto e bruno. Indossa una giacca verde militare. Può essere armato e molto pericoloso. Attendo in ascolto.»

Dal cellulare arrivò la voce sommessa del reverendo McKean.

«Vivien, ci sei?»

«Sì.»

«Se n’è andato.»

«Grazie. Sei stato grande. Ti chiamo dopo.»

Vivien si afflosciò sullo schienale. Fece un gesto sfiduciato all’autista.

«Puoi anche fermarti. Non abbiamo più fretta.»

Mentre l’autista accostava a destra, il capitano si infilò fra i sedili anteriori, per vedere in viso Vivien. E perché Vivien vedesse in viso lui.

«Che succede? Chi era al telefono?»

Vivien si voltò a guardarlo.

«Non te lo posso dire. L’unica cosa che ti posso dire è che adesso dobbiamo aspettare. E sperare.»

Bellew tornò a sedersi. Aveva capito che qualcosa era andato storto, anche se non sapeva cosa. Vivien sapeva come si sentiva il suo superiore in quel momento, perché non doveva essere molto diverso da come si sentiva lei. Nella macchina nessuno aveva il coraggio di parlare. Passarono dei minuti in cui il tempo e il silenzio avevano lo stesso colloso spessore.

Poco dopo, dalla radio uscì un voce.

«Qui agente Mantin del Midtown South. Abbiamo fermato un soggetto che corrisponde alla descrizione. Indossa una giacca verde del tipo militare.»

Vivien sentì il sollievo arrivare come un’onda e spegnere qualsiasi tipo di fiamma.

«Grande, ragazzi. Dove siete?»

«Sulla 31sima Strada all’angolo con la Settima.»

«Portatelo al vostro Distretto. Arriviamo subito.»

Vivien fece un gesto all’autista che si mosse, staccando l’auto dal marciapiede. Una mano arrivò da dietro sulla spalla di Vivien.

«Ottimo lavoro, ragazza.»

Quel complimento ebbe valore solo fino all’istante successivo. Un’altra voce arrivò dalla radio a riportare nella macchina la confusione e la disperazione.

«Qui auto 31, del Midtown South. Sono l’agente Jeff Cantoni. Abbiamo fermato anche noi un tipo che corrisponde alla descrizione.»

Non ebbero il tempo di chiedersi che stava succedendo perché una terza voce si sovrappose.

«Qui agente Webber. Sono sulla Sesta Avenue all’angolo con la 32sima.

Qui c’è una manifestazione di veterani. Saranno in duemila a indossare una giacca verde militare.»

Vivien chiuse gli occhi e portò le mani sul viso a coprirli. Si rifugiò in un buio nel quale il sole pareva non dovesse mai più sorgere e si permise di piangere solo quando quell’oscurità e lei divennero una cosa sola.

CAPITOLO 35

Vivien sbucò dall’ascensore e percorse lentamente il corridoio.

Quando arrivò davanti alla porta, estrasse le chiavi dalla tasca e le infilò nella toppa. Non appena ebbe dato il primo giro alla serratura, l’uscio di fronte si aprì e ne spuntò Judith. Reggeva in braccio uno dei suoi gatti, quello bianco e rosso.

«Ciao. Finalmente sei tornata.»

L’umore di Vivien in quel momento non comprendeva la possibilità di presenze ingombranti.

«Ciao, Judith. Scusami, sono molto di fretta.»

«Non vuoi un caffè?»

«No. Non ora, ti ringrazio.»

La vecchia la guardò per un istante con commiserazione e rimprovero.

«Ecco cosa ci si può aspettare da chi pensa solo alle mance.»

Richiuse la porta sul viso di Vivien con un’espressione di sufficienza. La serratura che scattava isolò lei e i suoi amici a quattro zampe in un mondo che apparteneva a loro soltanto. In altri momenti la bizzarria di quella donna l’avrebbe intenerita e divertita. In quel frangente Vivien non aveva spazio per altri sentimenti che non fossero la rabbia, la delusione e il rammarico. Per sé, per Greta, per Sundance. Per padre McKean. Per tutta la gente a cui quel folle aveva concesso di vivere, prima di scatenare un altro inferno.

Dopo la conferma definitiva del loro insuccesso, Bellew era rimasto a lungo in silenzio, senza avere il coraggio di guardarla. Sapevano tutti e due quello che sarebbe successo. Dal giorno dopo, quella mobilitazione e quel fiasco sarebbero stati sulla bocca di tutto il NYPD e del capo in particolare. Che, come aveva previsto il capitano, avrebbe richiesto spiegazioni e forse dimissioni.

Vivien era pronta a rendere pistola e distintivo, se glielo avessero chiesto. Aveva tentato tutto quello che poteva, ma era andata male. Per colpa del caso ma soprattutto per colpa sua, della sua sbadataggine. Per non essersi ricordata in tempo di accendere un dannato telefono. Il fatto che fosse successo in occasione della morte di sua sorella non era una scusante. Era un membro della Polizia e le sue esigenze e i suoi sentimenti personali dovevano passare in secondo ordine, in un caso come quello.

Non ne era stata capace ed era disposta a sopportarne le conseguenze.

Ma se altra gente fosse morta ne avrebbe portato addosso le conseguenze per sempre.

Entrò nell’appartamento di un uomo malato e disperato che per anni si era fatto chiamare Wendell Johnson. Ci ritrovò lo stesso ambiente spoglio, lo stesso senso di solitudine senza via di scampo. Una luce grigiastra entrava dalla finestra e tutto sembrava spento, privo di vita e senza speranza, intorno e dentro di lei.

Vagò per la casa, in attesa che la casa le parlasse.

Non sapeva nemmeno lei cosa stesse cercando, ma sapeva che c’era qualcosa di inesplorato in quel posto, un suggerimento che le era stato sussurrato all’orecchio e che lei non era stata capace di intendere e decifrare. Doveva solo mettersi tranquilla, dimenticare tutto il resto per ricordare che cosa. Prese l’unica sedia dal tavolo e la portò al centro della cucina. Si sedette a gambe aperte, le braccia appoggiate sul tessuto ruvido dei jeans, guardandosi in giro.