«Polizia. Ci penso io. Voi tutti fuori e lontano dalla casa. Presto.»
I ragazzi non se lo fecero ripetere. Uscirono di corsa, con i visi spaventati. Vivien sperò che fuori Sundance avesse la forza e il carisma per calmarli e per trascinarli con sé al sicuro.
Si avviò su per le scale, tenendo la pistola puntata.
Russell era dietro di lei, Russell era con lei.
Gradino dopo gradino arrivarono al primo piano, quello dove c’erano le camere dei ragazzi. Sul pianerottolo non c’era nessun giovane.
Probabilmente erano tutti fuori per le attività giornaliere, altrimenti ci avrebbe trovato qualcuno attirato del rumore dello sparo. Si affacciò alla finestra e vide un gruppo di ragazzi correre lungo la strada e sparire alla vista.
Il sollievo non le fece abbassare il livello di guardia.
Tese l’orecchio ad ascoltare. Nessuna voce, nessun lamento. Solo l’eco di quello sparo che sembrava una presenza ancora viva nella tromba delle scale. Vivien procedette oltre e imboccò la rampa che portava all’abbaino.
In alto, alla fine dei gradini, si indovinava una porta aperta.
Ci arrivarono con il silenzio dei gatti e il respiro delle loro prede.
Quando furono sul pianerottolo, Vivien si appoggiò un istante con le spalle al muro. Prese un lungo respiro e scivolò dentro la stanza con la pistola puntata.
Quello che vide la fece inorridire e in un attimo reagire. Padre McKean era steso a terra con un colpo d’arma da fuoco in mezzo alla fronte. Gli occhi aperti fissavano come stupiti il soffitto. Dietro la sua testa una chiazza di sangue si allargava sul pavimento. John era seduto su uno sgabello e la guardava con occhi vuoti, stringendo in mano una pistola.
«Butta la pistola. Subito.»
Vivien aveva gridato per istinto ma John era chiaramente sotto shock e non pareva intenzionato a reagire, né in grado di farlo. Nonostante questo, Vivien strinse più forte il calcio della sua Glock.
«Butta la pistola, John. Subito.»
L’uomo chinò la testa verso la mano che stringeva il revolver, come se solo in quel momento si rendesse conto di averlo in pugno. Poi le sue dita si aprirono e l’arma cadde a terra. Vivien l’allontanò con un calcio.
John alzò verso di lei gli occhi pieni di lacrime. La sua voce era un lamento.
«Diremo che sono stato io. Ecco cosa faremo. Diremo che sono stato io.»
Vivien liberò le manette dalla cintura, poi le strinse intorno ai polsi dell’uomo, immobilizzandolo con le braccia dietro la schiena. Solo a quel punto si concesse di respirare.
Russell era fermo sulla soglia e guardava il cadavere steso a terra in una pozza di sangue. Vivien si chiese se in quel momento fosse lì o stesse rivivendo qualche scena del passato. Gli diede il tempo di riprendersi.
Lo stesso tempo lo concesse a se stessa.
John era seduto sullo sgabello, il viso rivolto a terra. Continuava a mormorare la sua incomprensibile litania. Da quella parte Vivien non si aspettava sorprese. Prese contatto con il posto dove si trovava. Una stanza povera, severa, senza nessuna concessione alla vanità se non per un poster di Van Gogh alla parete. Un letto a una piazza e mezza, una scrivania, un cassettone, una poltrona lisa. Dappertutto libri, di diverso genere e di diverso colore.
E a terra, accanto all’armadio, una valigia aperta.
Dal coperchio spalancato spuntavano una busta spessa e consumata di carta marrone, un album di fotografie e una giacca verde militare.
Si accorse solo in quel momento che il televisore era acceso e bloccato sul fermo immagine. Vide Russell entrare, prendere il telecomando dal piano della scrivania e rimettere in funzione il vecchio videoregistratore.
Sul video le figure tornarono ad animarsi, in una fotografia sgranata che era forse il riversamento in VHS di un vecchio Super8. Insieme alle immagini arrivarono anche le voci.
Vivien fissò con la morte nel cuore quello che lo schermo le restituiva.
Seduto al centro del palcoscenico di un piccolo teatro, fermo sotto le luci, davanti alla sala gremita, c’era un ventriloquo molto giovane, ma non tanto da non poter essere riconosciuto. Sulle sue ginocchia teneva un pupazzo di circa tre piedi di statura e lo sorreggeva con una mano infilata dietro la schiena. Il fantoccio raffigurava un uomo anziano che indossava un tunica bianca, con lunghi capelli candidi e una barba dello stesso colore.
In un altro tempo e molto lontano da lì, Michael McKean si rivolse al pupazzo e gli pose una domanda con voce spazientita.
«Ma vuoi dirmi alla fine chi sei?»
Il pupazzo rispose con una voce calma e profonda.
«Non l’hai ancora capito? Giovanotto, ma allora sei proprio stupido.»
Poi, mosso dalla mano esperta del suo animatore, girò la testa verso la platea per godere delle loro risate. Rimase un attimo in silenzio, aggrottando le spesse sopracciglia sui suoi occhi di vetro azzurri in modo innaturale.
Infine disse quello che tutto il pubblico si aspettava.
«Io sono Dio.»
CAPITOLO 36
«E quando siamo arrivati a Joy, abbiamo visto che John, il braccio destro di padre McKean, lo aveva ucciso. Questo è tutto quello che sappiamo, per il momento.»
Vivien finì il suo racconto e condivise il silenzio delle altre persone presenti nella stanza, che la guardavano con diverse espressioni. Chi già sapeva la storia, l’aveva ripercorsa tappa per tappa attraverso le sue parole e sentiva in bocca il gusto amaro della conferma. Chi l’aveva ascoltata per la prima volta dall’inizio alla fine, non riusciva a togliersi dal viso l’incredulità.
Erano le sette. La luce del mattino entrava dalla finestra e si disegnava sul pavimento.
Tutti erano sfiniti.
Nello studio del sindaco, alla New York City Hall, erano presenti Joby Willard, il capo della Polizia, il capitano Alan Bellew, Vivien, Russell e il dottor Albert Grosso, uno psicopatologo scelto da Gollemberg come consulente alle indagini, che era stato convocato di corsa per prendersi cura di John Kortighan e del suo stato confusionale.
Visto quello che Joy nascondeva fra le sue mura, tutti avevano convenuto che non era il caso che i ragazzi passassero la notte in quel posto. Erano stati affidati alle cure del personale esterno che collaborava con la comunità e sistemati provvisoriamente in un albergo del Bronx che aveva acconsentito a ospitarli.
Aveva dato un bacio a Sundance, riservandosi di rimandare al giorno dopo la notizia della morte di sua madre. Mentre li vedeva salire sul furgone, Vivien aveva pensato che ci sarebbe voluto molto lavoro prima che dimenticassero. Sperò che nessuno di loro si perdesse, mentre affrontava questa nuova prova che era chiamato a superare.
Una volta finiti i rilievi, dopo che il cadavere di Michael McKean era stato rimosso, dopo che il suo assassino era stato portato via in manette, una macchina li aveva caricati e li aveva portati al municipio, dove erano arrivati quasi contemporaneamente al capitano e dove Wilson Gollemberg, il sindaco, li attendeva su una poltrona di spine.
Per prima cosa si era assicurato che il pericolo di altre detonazioni fosse scongiurato.
Bellew aveva spiegato che gli artificieri avevano reso inservibile il telecomando che innescava le esplosioni e che, grazie alla lettera trovata in possesso del sacerdote e della conferma sulla mappa, frutto di una geniale intuizione di Vivien, avevano l’elenco preciso degli edifici minati. Pur con comprensibili disagi per i cittadini, la bonifica sarebbe iniziata di lì a poche ore.
Poi Vivien aveva riassunto la storia nella sua complessità e nella sua assurdità fino alla drammatica conclusione.
A quel punto il dottor Grosso, un uomo sui quarantacinque anni che era l’esatto contrario dello stereotipo dello psichiatra, capì che toccava a lui. Si alzò in piedi e iniziò a parlare camminando per la stanza, con una voce calma che fin dalle prime parole ebbe il potere di attirare l’attenzione dei presenti.