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Non che non fosse una donna religiosa, la signora Torta. Come è stato già accennato, era molto religiosa. Non c’era tempio, chiesa, moschea o mucchietto di pietre in città che non avesse frequentato una volta o l’altra, e in conseguenza di ciò era più temuta di un Secolo di Lumi; la sola vista della piccola sagoma grassa della signora Torta sulla soglia era sufficiente a far fuori la maggior parte dei preti a metà invocazione.

Morti. Il punto era proprio quello. Tutte le religioni avevano opinioni molto precise riguardo al parlare con i morti, e anche la signora Torta. Loro lo consideravano peccaminoso. Lei sosteneva che era solo buona educazione.

Questo di solito portava ad accesi dibattiti ecclesiastici che quasi sempre si concludevano con la signora Torta che gratificava il prete con ‘un poco del suo pensiero’. C’era così tanto pensiero della signora Torta in giro che ci si meravigliava che gliene fosse rimasto ancora, ma stranamente, più ne dava via più sembrava averne.

C’era anche la questione di Ludmilla. Ludmilla era un problema. Il defunto signor Torta, dio l’abbia in gloria, non aveva mai nemmeno fischiettato alla luna in tutta la sua vita, e la signora Torta aveva il tetro sospetto che Ludmilla fosse un retaggio del lontano passato della famiglia fra le montagne, o che avesse preso una malattia genetica da piccola. Era sicura che sua madre, una volta, avesse alluso con fare circospetto all’abitudine del prozio Erasmus di mangiare a volte sotto il tavolo. A parte questo, Ludmilla era una virtuosa fanciulla per tre settimane su quattro, e un essere lupesco e peloso, ma molto beneducato, per il resto del tempo.

I preti però non la vedevano così. Quando la signora Torta rompeva definitivamente con qualsiasi prete[10] facesse in quel momento da moderatore fra lei e gli dei, di solito aveva già assunto, grazie alla sola forza della sua personalità, il controllo degli addobbi floreali, dello spolvero dell’altare, della pulizia del tempio, della disincrostazione della pietra sacrificale, della virginazione vestigiale onoraria, della riparazione degli inginocchiatoi e di tutti gli altri ruoli di supporto vitali in una religione, per cui la sua dipartita scatenava il caos totale.

Si abbottonò il cappotto.

«Non funzionerà» disse Ludmilla.

«Proverò con i maghi. Dovrebbero essere tolleranti». Era così piena di sé che tremava, come un piccolo pallone da calcio arrabbiato.

«Sì, ma dici sempre che non ascoltano» disse Ludmilla.

«Devo provarci. A proposito, cosa fai fuori dalla tua stanza?»

«Oh, mamma. La odio, quella stanza. Non c’è bisogno di…»

«Non si è mai troppo cauti. E se ti venisse in mente di dare la caccia alle galline dei vicini? Che direbbero nel quartiere?»

«Non ho mai sentito il minimo impulso a dare la caccia alle galline, mamma» disse stancamente Ludmilla.

«O inseguire i carri abbaiando».

«Quelli sono i cani, mamma».

«Torna nella tua stanza, chiuditi a chiave e fai un po’ di cucito, da brava».

«Lo sai che non riesco a tenere bene l’ago, mamma».

«Provaci. Fallo per tua madre».

«Sì, mamma» disse Ludmilla.

«E non ti avvicinare alla finestra. Non vogliamo innervosire nessuno».

«Sì, mamma. E tu accendi la premonizione. La tua vista non è più buona come una volta».

La signora Torta guardò la figlia salire le scale. Poi si chiuse la porta d’ingresso alle spalle e si avviò verso l’Università Invisibile, dove aveva sentito che c’erano fin troppe stranezze di tutti i tipi.

Chiunque avesse osservato l’avanzare della signora Torta avrebbe notato un paio di dettagli strani. Malgrado l’andatura incostante, nessuno la urtava. Non è che gli altri la evitassero; semplicemente, lei non si trovava dove stavano loro. A un certo punto esitò ed entrò in un vicolo. Un secondo più tardi un barile rotolò giù da un carro che stava scaricando fuori da una taverna e si andò a sfasciare sul selciato dove doveva trovarsi lei. La signora Torta uscì dal vicolo e scavalcò i rottami, borbottando fra sé.

Passava molto tempo a borbottare. La sua bocca era in costante movimento, come se cercasse di rimuovere qualcosa di fastidioso da un dente in fondo.

Raggiunse gli alti cancelli neri dell’Università ed esitò ancora, come per ascoltare una voce interiore.

Poi si fece di lato e aspettò.

Bill Porta aspettava, steso nell’oscurità del fienile. Sotto, sentiva di tanto in tanto un suono da Binky: un movimento lieve, un ruminare di mandibola.

Bill Porta. E così, ora aveva un nome. Naturalmente ne aveva sempre avuto uno, ma era il nome di ciò che personificava, non di chi era. Bill Porta. Aveva un bel suono. Signor Bill Porta. Cav. William Porta. Billy P… no. Billy no.

Bill Porta si accomodò meglio nella paglia. Pescò dalla veste la clessidra d’oro. Il calo della sabbia nella metà superiore era percepibile. La rimise via.

E poi c’era questo ‘sonno’. Sapeva cos’era. La gente ci passava parecchio tempo. Presumibilmente aveva uno scopo. Lo stava osservando con interesse. Avrebbe dovuto analizzarlo.

La notte si allungò sul mondo, inseguita con freddezza da un nuovo giorno.

Ci fu un tramestio nel pollaio dall’altra parte dell’aia «Chicchirà… ehm».

Bill Porta fissò il tetto del fienile.

«Chicchirò… ehm».

Una luce grigia filtrava tra le fessure.

Eppure solo un momento fa c’era stata la luce rossa del tramonto!

Erano svanite sei ore.

Bill tirò fuori la clessidra. Sì. Il livello era decisamente sceso. Mentre aspettava di fare l’esperienza del sonno, qualcosa aveva rubato parte della sua… vita. Non se n’era nemmeno accorto…

«Chi… chicchi… ehm».

Scese dal fienile e uscì nella nebbia sottile del mattino.

Le galline più anziane lo guardarono con diffidenza quando sbirciò nella loro casa. Un vecchio gallo dall’aria piuttosto imbarazzata gli lanciò un’occhiataccia e scrollò le piume.

Dalla casa venne un rumore metallico. Un vecchio cerchio di ferro da botte era appeso accanto alla porta, e la signorina Flitworth lo stava picchiando vigorosamente con un mestolo.

Bill si avvicinò per indagare.

PERCHÉ QUESTO BACCANO, SIGNORINA FLITWORTH?

Lei si voltò con il mestolo a mezz’aria.

«Dio buono, cammini come un gatto!» disse.

UN GATTO?

«Volevo dire che non ti ho sentito». Fece un passo indietro e lo squadrò da capo a piedi.

«C’è ancora qualcosa di te che non riesco a capire, Bill Porta» disse. «Ma non so che cosa».

Lo scheletro alto due metri la guardò stoicamente. Gli pareva di non avere nulla da dire.

«Cosa vuoi per colazione?» chiese la vecchia. «Non che faccia molta differenza. C’è solo porridge».

Più tardi pensò: ‘Deve averlo mangiato, perché la scodella è vuota. Ma perché non me lo ricordo?’

E poi c’era la faccenda della falce. Sembrava che non ne avesse mai vista una prima. Lei gli indicò i manici e il tirante per la lama. Lui li osservò educatamente.

COME LA AFFILA, SIGNORINA FLITWORTH?

«È già affilata, dio buono».

COME LA AFFILA DI PIÙ?

«Non si può. Non si può affilare più di così».

Lui provò un fendente, a vuoto, poi scosse la testa con disapprovazione.

E poi c’era l’erba.

L’erba secca era alta sulla collina dietro la fattoria, che dava sul campo di grano. La signorina Flitworth lo osservò per un po’.

Era il metodo più interessante che avesse mai visto. Non avrebbe nemmeno mai pensato che fosse tecnicamente possibile.

Alla fine disse: «Bene. Hai un bel fendente».

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10

La signora Torta era consapevole del fatto che alcune religioni avevano sacerdotesse. L’opinione della signora Torta sul sacerdozio femminile non è ripetibile. Le religioni con le sacerdotesse, ad Ankh-Morpork, tendevano ad attirare folle di preti in borghese di altre denominazioni, in cerca di qualche ora di sollievo in un posto dove non rischiavano di incontrare la signora Torta.