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Morte ci pensò su, poi disse:

HO SEMPRE FATTO IL MIO DOVERE COME RITENEVO NECESSARIO.

La figura si avvicinò. Assomigliava vagamente a un monaco incappucciato in grigio.

Disse: Lo sappiamo. Per questo ti lasciamo tenere il cavallo.

Il sole era vicino all’orizzonte.

Sul Disco, le creature dalla vita più breve erano le efemere, che raggiungevano appena le ventiquattro ore. Due delle più anziane zigzagavano senza meta sulle acque di un torrente di trote, parlando di storia con alcuni membri più giovani della schiusa serale.

«Non c’è più il sole di una volta» disse una di loro.

«Hai proprio ragione. Nelle vecchie ore avevamo un sole come si deve. Mica questa roba rossa».

«Ed era pure più alto».

«Vero. Verissimo».

«E le ninfe e le larve avevano un minimo di rispetto».

«Parole sante» disse l’altra efemera con veemenza.

«Secondo me se le efemere si comportassero meglio in queste ore, avremmo ancora un sole come si deve».

Le efemere più giovani ascoltavano educatamente.

«Mi ricordo» disse una delle anziane, «quando qui era tutta campagna, a perdita d’occhio».

Le più giovani si guardarono intorno.

«È ancora campagna» azzardò una, dopo una pausa di cortesia.

«Mi ricordo quando era una campagna migliore» disse la più anziana in tono tagliente.

«Esatto» disse la sua collega. «E c’era una mucca».

«Precisamente! Hai ragione! Mi ricordo quella mucca! Se ne stava lì per quaranta, anche cinquanta minuti. Era marrone, se mi ricordo bene».

«In queste ore non ne vedi più, di mucche come quella».

«Non ne vedi proprio, di mucche».

«Cos’è una mucca?» chiese una delle più piccole.

«Visto?» disse la più anziana, trionfante. «Ecco l’ephemeroptera moderna». Fece una pausa. «Che stavamo facendo prima di parlare del sole?»

«Zigzagavamo senza meta sull’acqua» disse una delle giovani. C’era comunque la forte probabilità che fosse vero.

«No, prima».

«Ehm… ci stavi raccontando della Grande Trota».

«Ah sì. Giusto. La Trota. Bene: se sei stata una buona efemera, se hai zigzagato su e giù come si deve…»

«… dando retta agli anziani che ne sanno di più…»

«… sì, dando retta a chi ne sa di più, alla fine la Grande Trota…»

Clop.

Clop.

«Sì?» disse una delle giovani efemere.

Nessuna risposta.

«La Grande Trota cosa?» disse nervosamente un’altra.

Guardarono in basso, verso una serie di cerchi concentrici che si allargavano sull’acqua.

«Il sacro segno!» disse un’efemera. «Ricordo che me ne hanno parlato! Un Grande Cerchio nell’acqua! Quello è il segno della Grande Trota!»

La più anziana delle giovani efemere osservò l’acqua pensosamente. Cominciava a rendersi conto del fatto che, essendo la più anziana fra le presenti, ora aveva il privilegio di volare più vicina alla superficie.

«Dicono» disse quella in testa al nugolo zigzagante, «che quando la Grande Trota arriva per te, vai in una terra piena di… piena di…» Le efemere non mangiano. Era senza parole. «Piena d’acqua» terminò, mogia.

«Chissà» disse la più anziana.

«Dev’essere veramente bello, laggiù» disse la più giovane.

«Perché?»

«Perché nessuno vuole mai tornare».

Al contrario, le cose più vecchie di Mondo Disco erano i celebri Pini Contatori, che crescono sul ciglio delle nevi perenni delle alte Ramtop Mountains.

Il Pino Contatore è uno dei pochi esempi conosciuti di evoluzione in prestito.

La maggior parte delle specie si occupa della propria evoluzione man mano che va avanti, così come la Natura ha stabilito. Così è tutto molto naturale e biologico, e in armonia con i misteriosi cicli del cosmo, che ritiene che non ci sia niente di meglio che milioni di anni di tentativi frustrati e di errori per dare a una specie tempra morale, e in alcuni casi, anche una colonna vertebrale.

Dal punto di vista delle specie probabilmente va bene così, ma dalla prospettiva degli individui coinvolti può essere una vera porcata, ammesso che quel certo piccolo rettile rosa possa un giorno evolversi in un porco.

E perciò i Pini Contatori evitano tutto questo lasciando che siano gli altri vegetali a evolversi al posto loro. Un seme di pino, posandosi in un punto qualsiasi del Disco, assume immediatamente il codice genetico locale più efficace per mezzo della risonanza morfica e diventa qualunque cosa si adatti meglio al suolo e al clima, cavandosela di solito molto meglio degli alberi autoctoni di cui solitamente usurpano il posto.

Ciò che rende i Pini Contatori particolarmente degni di nota, tuttavia, è il modo in cui contano.

Avendo una vaga nozione del fatto che gli umani calcolano l’età degli alberi contando gli anelli, i Pini Contatori originari decisero che quello era il motivo per cui gli umani tagliavano gli alberi.

Nel giro di una notte ogni Pino Contatore modificò il proprio codice genetico in modo che producesse sul tronco, più o meno ad altezza d’occhi, la sua età esatta a chiare cifre. Nel giro di un anno l’industria delle targhe ornamentali per numeri civici li fece fuori tutti, e solo pochi ne sopravvivono oggi, in zone molto difficili da raggiungere.

I sei Pini Contatori di quella colonia ascoltavano il più anziano, il cui tronco contorto dichiarava trentunomilasettecentotrentaquattro anni. La conversazione andava avanti da diciassette anni, ma si stava velocizzando.

«Mi ricordo quando qui non era tutta campagna».

I pini guardarono le mille miglia di paesaggio. Il cielo tremolò come in un mediocre effetto speciale di un film sui viaggi nel tempo. Comparve la neve, rimase un istante, poi svanì.

«E che cos’era, allora?» chiese il pino più vicino.

«Ghiaccio. Se possiamo chiamarlo così. Allora sì che c’erano ghiacciai come si deve. Non come il ghiaccio di adesso, che una stagione c’è e l’altra è sparito. Quello restava per secoli».

«E che cosa ne è stato?»

«Andato».

«Andato dove?»

«Dove vanno le cose. Tutto corre via».

«Uau. Quello è stato tosto».

«Quello cosa?»

«Quell’inverno, un istante fa».

«E me lo chiami un inverno? Quando ero un alberello io sì che avevamo gli inverni…»

Poi l’albero scomparve.

Dopo una pausa di choc che durò un paio d’anni, uno del gruppo disse: «È sparito! Così, da un giorno all’altro!»

Se gli altri alberi fossero stati umani, avrebbero strascicato i piedi, a disagio.

«Succede, ragazzo» disse uno, con cautela. «È stato portato in un Posto Migliore,[1] puoi starne certo. Era un buon albero».

Il giovane, che aveva solo cinquemilacentoundici anni, disse: «Che genere di Posto Migliore?»

«Non ne siamo certi» disse uno. Tremolò a disagio, a causa di una settimana di tempesta. «Ma crediamo che c’entri della… segatura».

Dal momento che gli alberi non erano in grado di accorgersi di eventi che duravano meno di un giorno, non sentivano mai il rumore delle asce.

Windle Poons, il mago più vecchio di tutta l’Università Invisibile (casa della magia, della stregoneria e delle grandi cene) stava per morire anche lui.

Lo sapeva, in un certo senso tremolante e fragile.

Naturalmente, rifletté guidando la sedia a rotelle sul lastricato verso il suo studio a pianoterra, in generale tutti sanno che devono morire, anche la gente comune. Nessuno sapeva dove si trovava prima di nascere, ma una volta nati ci voleva poco prima di ritrovarsi con il biglietto di ritorno già timbrato.

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1

In questo caso tre posti migliori. I portoni dei numeri 31,7 e 34 di Via Olmo, Ankh Morpork.