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GRAZIE, SIGNORINA FLITWORTH.

«Ma perché un filo d’erba alla volta?»

Bill Porta osservò la fila ordinata di steli.

C’È UN ALTRO MODO?

«Ne puoi tagliare parecchi alla volta, sai».

NO. NO. UN FILO ALLA VOLTA. UNO SOLO.

«Non ne taglierai molti, così» disse la signorina Flitworth.

FINO ALL’ULTIMO, SIGNORINA FLITWORTH.

«Sì?»

SI FIDI DI ME.

La signorina Flitworth lo lasciò fare e tornò in casa. Andò alla finestra della cucina e rimase a osservare la figura scura in lontananza, che si spostava oltre la collina.

Chissà che cosa ha fatto?, pensò. Avrà un Passato. Sarà un Uomo del Mistero. Magari ha commesso una rapina e tiene un Basso Profilo.

Ha già tagliato una fila intera. Uno stelo alla volta, ma più in fretta di uno che taglia un fascio alla volta…

L’unica lettura alla quale la signorina Flitworth si dedicava era L’Almanacco del Contadino e il Catalogo delle Sementi, che poteva durare un anno intero al gabinetto se nessuno stava male. Oltre a fornire sobrie informazioni sulle fasi lunari e la semina, indulgeva con un certo piacere morboso nel resoconto delle stragi, delle rapine a mano armata e dei disastri naturali che affliggevano l’umanità, con questo genere di titoli: ‘15 giugno, anno dell’Ermellino Estemporaneo: oggi, 150 anni fa, una pioggia anomala di gulasch uccide un uomo a Quirm’ oppure ‘Chume, il famigerato Lanciatore di Aringhe, fa 14 vittime’.

La cosa importante in tutto questo era che accadeva molto lontano, forse per qualche intervento divino. Le uniche cose che succedevano nella zona di solito erano dei furti di pollame o l’apparizione di qualche troll. Naturalmente sulle colline c’erano anche banditi e rapinatori, ma andavano d’accordo con i residenti ed erano essenziali per l’economia locale. Ma comunque, la signorina si sentiva molto più sicura con qualcun altro in giro.

La figura scura sulla collina era già a buon punto con la seconda fila. Alle sue spalle, l’erba tagliata avvizziva al sole.

HO TERMINATO, SIGNORINA FLITWORTH.

«Vai a dare da mangiare al maiale, allora. Si chiama Nancy».

NANCY, ripeté Bill, rigirando la parola in bocca come a volerla esaminare da ogni lato.

«Come mia madre».

ANDRÒ A DAR DA MANGIARE AL MAIALE NANCY, SIGNORINA FLITWORTH.

Alla signorina sembrò che fossero passati solo pochi secondi.

HO TERMINATO, SIGNORINA FLITWORTH.

Lei lo guardò stringendo gli occhi. Poi, lentamente e deliberatamente, si asciugò le mani con uno straccio, uscì nell’aia e si diresse al porcile.

Nancy si era tuffata fino agli occhi nel trogolo.

La signorina Flitworth si chiese cosa rispondere. Alla fine decise per «Molto bene. Molto bene. Lavori… in fretta, non c’è che dire».

SIGNORINA FLITWORTH, PERCHÉ IL GALLO NON CANTA COME DOVREBBE?

«Oh, Cyril? Non ha memoria. Ridicolo, no? Magari si ricordasse come si fa».

Bill Porta trovò un pezzo di gesso nella vecchia mascalcia della fattoria, individuò un pezzo di asse tra i rottami, e scrisse qualcosa con molta attenzione. Poi affisse la tavola davanti al pollaio e ci mise Cyril davanti.

LEGGERAI QUESTO, disse.

Cyril guardò con occhi miopi il ‘chicchirichì’ scritto in pesanti caratteri gotici. Da qualche parte nella sua piccola, folle mente da pollo si formò la distinta e gelida consapevolezza che era meglio che imparasse a leggere molto, molto in fretta.

Bill Porta tornò a sedersi tra la paglia e pensò alla giornata. Era sembrata piuttosto piena. Aveva falciato l’erba, nutrito gli animali e riparato una finestra. Aveva trovato dei vecchi indumenti da lavoro appesi nella stalla, che per un Bill Porta sembravano molto più adatti di una veste fatta di oscurità, e così li aveva indossati. La signorina Flitworth gli aveva anche dato un cappello di paglia con la tesa larga.

E poi si era avventurato per il mezzo miglio di strada che portava in città. Città era una parola grossa. A quanto pareva i residenti si guadagnavano da vivere rubandosi l’un l’altro il bucato.

C’era una piazza, una cosa ridicola che in realtà era un incrocio un po’ largo, con una torre dell’orologio. E c’era una taverna. Era entrato.

Dopo il primo momento in cui la mente degli altri si sintonizzava sulla sua presenza, era stato accolto con cauta benevolenza; le notizie viaggiano ancora più in fretta quando sono poche bocche a spargerle.

«Dev’essere quello nuovo che lavora dalla Flitworth» disse il barista. «Porta, mi sembra».

CHIAMATEMI BILL.

«Ah? Una volta era una bella fattoria. Non avrei mai pensato che la vecchia sarebbe rimasta».

«Ah» convennero un paio di uomini accanto al camino.

AH.

«Nuovo di queste parti?» chiese il barista.

L’improvviso silenzio degli altri clienti fu come un buco nero.

NON ESATTAMENTE.

«Sei già stato qui?»

DI PASSAGGIO.

«Dicono che la vecchia Flitworth sia matta» disse una delle figure sedute sulle panche lungo le pareti annerite dal fumo.

«Ma acuta come una lancia, però» disse un altro bevitore curvo.

«Acuta, certo. Ma sempre una matta».

«E dicono che abbia delle casse piene di tesori in quel vecchio salotto».

«Coi soldi è tirata, quello è sicuro».

«Vedi. Acuta e ricca. Ma sempre matta».

«I ricchi non possono essere matti. Eccentrici, casomai».

Il silenzio tornò a incombere. Bill Porta cercò disperatamente qualcosa da dire. Non era mai stato molto bravo a fare conversazione. Non aveva mai avuto molte occasioni.

Che si diceva di solito in casi come questo? Ah. Sì.

OFFRO DA BERE A TUTTI, annunciò.

Più tardi gli insegnarono un gioco che consisteva in un tavolo con dei buchi e delle reti lungo i bordi, e delle palle intagliate da mani esperte nel legno; a quanto pareva le palle dovevano rimbalzare l’una contro l’altra e finire nelle buche. Si chiamava Biliardo. Giocava bene, lui. In effetti, giocava alla perfezione. All’inizio non aveva capito come evitarlo. Ma dopo aver sentito gli altri trattenere il respiro dallo sbalordimento, aveva iniziato a commettere errori con diligente precisione; quando poi gli insegnarono le freccette, era diventato veramente bravo a fare errori. Più faceva errori, più piaceva agli altri. Così lanciava le piccole frecce piumate con fredda perizia, non facendole mai conficcare a meno di trenta centimetri dai bersagli che gli indicavano. Ne mandò perfino una a rimbalzare contro un chiodo, facendola poi finire nella birra di un tale, cosa che fece ridere talmente forte uno degli uomini più anziani che dovettero portarlo fuori a prendere un po’ d’aria.

Lo chiamavano Buon Vecchio Bill.

Nessuno lo aveva mai chiamato così prima.

Che strana serata.

C’era stato anche un brutto momento, però. Aveva sentito una vocetta che diceva «Quello lì è uno schelitro» e aveva visto una bambina piccola in camicia da notte che lo guardava da dietro il bar, senza paura ma con una sorta di affascinata repulsione.

Il padrone, che come Bill Porta ora sapeva, si chiamava Lifton, aveva riso nervosamente e si era scusato.

«Che fantasia» aveva detto. «Le cose che si inventano i bambini, eh? Torna a letto, Sal. E chiedi scusa al signor Porta».

«È uno schelitro con i vestiti» aveva detto la bimba. «Perché la birra non cola tutta fuori?»

Gli era quasi preso il panico. I suoi poteri intrinseci stavano svanendo, quindi. Normalmente le persone non riuscivano a vederlo: lui occupava un punto cieco nei loro sensi, che ognuno riempiva con qualcosa che avrebbe incontrato più volentieri. Ma l’incapacità degli adulti di vederlo non era una garanzia contro questo genere di dichiarazione insistita, e aveva sentito la perplessità degli altri. Poi, appena in tempo, era arrivata la madre dal retro e aveva portato via la bambina. Aveva sentito lamentele soffocate per le scale, del tipo «… È uno schelitro con tutte le ossa…»