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Uno squadrone di maledizioni appena nate rivendicò coraggiosamente la libertà. Lui cercò di acciaccarle senza successo.

«Via, bast…»

«Non lo dica!» scongiurò il Sommo Algebrico. «Faccia silenzio!»

Nessuno diceva mai all’Arcicancelliere di fare silenzio. Il silenzio era una cosa che facevano gli altri. Lo choc lo zittì.

«Volevo dire che ogni volta che lei impreca quelle prendono vita» si affrettò ad aggiungere il Sommo Algebrico. «Piccole cose orrende con le ali spuntano fuori dal nulla».

«Miseriaccia schifosa!» disse l’Arcicancelliere.

Pop. Pop.

Il Tesoriere strisciò fuori confuso dal groviglio dei rottami del carrello. Ritrovò il suo cappello a punta, lo spolverò, lo provò, aggrottò la fronte e tolse una rotella da dentro. I suoi colleghi non gli prestarono molta attenzione.

Sentì l’Arcicancelliere che diceva: «Ma io l’ho sempre fatto! Non c’è niente di male in una bella imprecazione, aiuta la circolazione del sangue. Attenzione, Decano, una di quelle dann…»

«Non potrebbe dire qualcos’altro?» gridò il Sommo Algebrico, per sovrastare il ronzio dello sciame.

«Per esempio?»

«Per esempio… Oh… ‘perbacco’».

«Perbacco?»

«Sì, o magari ‘caspita’».

«Caspita? Vuole che io dica caspita?»

Il Tesoriere si avvicinò al gruppo. Litigare su dettagli insignificanti nel mezzo di una emergenza dimensionale era tipico dei maghi.

«La signora Whitlow, la governante, dice sempre ‘Melassa!’ quando fa cadere qualcosa» propose.

L’Arcicancelliere si voltò verso di lui.

«Dirà pure melassa» ringhiò, «ma quello che intende è me…»

I maghi si abbassarono. Ridcully riuscì a trattenersi.

«Oh, caspita» disse in tono infelice. Le imprecazioni si posarono dolcemente sul suo cappello.

«La adorano» disse il Decano.

«Certo, è il loro papà» disse il professore di Rune Recenti.

Ridcully li fulminò con un’occhiata. «Voialtri b… bravi ragazzi smettetela di fare gli sciocchi alle spalle del vostro Arci-cancelliere e scoprite che c… cosa sta succedendo» disse.

I maghi guardarono ansiosamente in aria. Non apparve nulla.

«Sta andando benissimo» disse il professore di Rune Recenti. «Continui così».

«Perbacco perbacco perbacco» disse l’Arcicancelliere. «Melassa melassa melassa. Caspitina caspiterina caspita», scosse la testa. «Non va bene per niente, non mi dà nessun sollievo».

«Comunque ha ripulito l’aria» disse il Tesoriere.

Gli altri notarono la sua presenza per la prima volta.

Guardarono ciò che restava del carrello.

«Cose che sfrecciano in giro» disse Ridcully. «Cose che prendono vita».

Si voltarono improvvisamente verso un cigolio familiare. Altre due cestini a rotelle attraversarono di corsa la piazza fuori dai cancelli. Uno era pieno di frutta. L’altro era per metà pieno di frutta e per l’altra metà di un bambino piccolo e urlante.

I maghi rimasero a bocca aperta. Un corteo di persone correva dietro ai carrelli. Leggermente in testa agli altri, con i gomiti che fendevano l’aria, una donna disperata e decisa superò i cancelli dell’Università.

L’Arcicancelliere afferrò un uomo massiccio che avanzava pesantemente ma con grande buona volontà in coda agli altri.

«Cos’è successo?»

«Stavo mettendo delle pesche in quel cesto quando a un certo punto è saltato su ed è corso via!»

«E il bambino?»

«E chi lo sa? Quella donna aveva uno di quei cesti, ha comprato delle pesche da me e poi…»

Si voltarono tutti. Un cesto uscì di corsa da un vicolo, li vide, fece un’abile inversione e schizzò via attraverso la piazza.

«Ma perché?» rispose Ridcully.

«Ma perché sono comodi per metterci la roba dentro, no?» disse l’uomo. «Dovevo portare le pesche. Lo sa come si ammaccano».

«Vanno tutti nella stessa direzione» disse il professore di Rune Recenti. «L’avete notato?»

«Inseguiamoli!» gridò il Decano. Gli altri maghi, troppo confusi per discutere, gli caracollarono dietro.

«No…» cominciò Ridcully, poi si rese conto che non aveva senso. E stava anche perdendo l’iniziativa. Formulò con cura il grido di battaglia più garbato della storia della censura.

«Carica, che il cielo li confonda!» urlò, e corse dietro al Decano.

Bill Porta lavorò per tutto un lungo faticoso pomeriggio, alla testa di un corteo di legatori e accatastatori.

Finché si sentì un grido, e gli uomini corsero verso il recinto.

Il grosso campo di Iago Peedbury era proprio dall’altra parte. I braccianti stavano spingendo la Mietitrebbiatrice attraverso il cancello.

Bill raggiunse gli altri e si affacciò oltre la siepe. Si vedeva la figura lontana di Simnel che dava istruzioni. Un cavallo spaventato fu legato agli assi. Il fabbro salì sul piccolo seggiolino metallico al centro del macchinario, e prese le redini.

Il cavallo avanzò. I bracci aspersori si aprirono, i teli di canapa iniziarono a ruotare, e probabilmente la vite oscillante stava girando, ma non aveva molta importanza perché da qualche parte qualcosa fece clonk e tutto si fermò.

Dalla folla lungo la siepe giunsero grida di «Ora scendi e mungila!», «Ma butta quel catorcio!», «Ci vuole il bastone, non solo la carota!» e altre spiritosaggini di origine controllata.

Simnel scese, conversò a bassa voce con Peedbury e i suoi uomini, e poi scomparve per un momento dentro la macchina.

«Non volerà mai!»

«Tempo sprecato!»

Stavolta la Mietitrebbiatrice percorse diversi metri prima che uno dei teli rotanti si strappasse.

A quel punto alcuni degli uomini lungo la siepe erano piegati in due dalle risate.

«Ferrovecchio! Sei pence al quintale!»

«Vai a prendere l’altra, questa è rotta!»

Senza spostare lo sguardo dalla scena nel campo accanto, Bill Porta prese dalla tasca una pietra per arrotare e cominciò a sfilare la sua falce, lentamente e deliberatamente.

A parte il tintinnio lontano degli attrezzi del fabbro, lo schip-schip della pietra sul metallo era l’unico suono udibile nell’aria pesante.

Simnel risalì sulla Mietitrebbiatrice e fece un cenno all’uomo che conduceva il cavallo.

«Ecco che ci riprova!»

«Altro penny, altro giro!»

«Mettici un calzino…»

Le voci si spensero.

Una mezza dozzina di paia di occhi seguirono la Mietitrebbiatrice lungo il campo, la videro girare in cima e tornare indietro.

Passò sferragliando, tra giunti alternati e oscillazioni.

In fondo al campo girò docilmente, e ripassò di nuovo davanti al pubblico.

Dopo un po’ uno degli spettatori disse in tono cupo: «Non prenderà mai piede, sentite a me».

«Giusto. Chi la vuole, una cosa come quella?» disse un altro.

«Ma sì, è solo una specie di grosso orologio. Non fa altro che andare su e giù per un campo…»

«… molto velocemente…»

«… taglia le spighe e separa i chicchi…»

«Ha già fatto tre file».

«Che mi venga un colpo!»

«Non vedi nemmeno le lame che si muovono! Che ne pensi, Bill? Bill?»

Si guardarono intorno.

Lui era a metà della seconda fila, ma stava accelerando.

La signorina Flitworth aprì appena la porta.

«Sì?» disse, sospettosa.

«È Bill Porta, signorina Flitworth. L’abbiamo riportato a casa».

Lei aprì la porta un po’ di più.

«Che gli è successo?»

I due uomini entrarono goffamente, cercando di sostenere una figura trenta centimetri più alta di loro. Bill Porta alzò la testa e guardò inebetito la signorina Flitworth.