Fuori del tempio il popolo urlava, insaniva, fremeva a guisa di baccante scapigliata; Perché nessuna scintilla d’intelletto gli balenasse su l’anima, qui ì pane, qui copia di vino, camangiari e giullari. Sopra una colonna di marmo stava l’aquila imperiale; la quale da uno de’ suoi becchi versava vino rosso, dall’altro vino bianco, e giù intorno alla base della colonna vedevi prostesi uomini deturpati da oscena ubbriachezza. Sicché l’Alamanni[7] a questo spettacolo ebbe a dire: Ecco l’aquila imperiale rende oggi a spiluzzico alla gente italica il sangue che loro bevve a lunghi sorsi in tanti anni e le lacrime che le fece in copia versare; ma gliele rende stemperate nel veleno della stupidità.
Ahi! popolo, io che ho viscere di umanità e sono parte di te, conosco le tue miserie e le compiango. Bevi, procurati un sonno uguale alla morte; le tue gioie consistono nel non sentire i tuoi dolori. Ora tu sei condotto in piazza, come l’orso ammansito, per sollazzare i tuoi sovrani padroni.
Dalle finestre, dai terrazzi lui ordina che ti siano gettati pane e carne. Potessi cibarti per un anno e approvigionarti lo stomaco, come la cittadella che teme l’assedio, saresti meno infelice; ma domani l’insolito cibo ti recherà molestia, forse anche la morte. Feste, forni e forche; ecco la somma dei paterni argomenti con i quali ti governano i tuoi signori. Domani tornerai a logorarti nelle consuete officine, a bagnare di sudore i solchi dei campi; quivi travagliati da mattina a sera, e l’opera delle tue mani, il sudore della tua fronte devotamente consegna ai re e ai sacerdoti tuoi. Questi ti lasceranno la vita, ti lasceranno un pane, il cielo che ti copre e il sole che ti scalda… o che non basta? Indiscreto! Via, ti lasceranno tanto spazio di terra da riporci dentro le tue ossa, perché non le rodano i cani, ed ancora perché morto tu col fetore non gli offenda dopo che vivo tanta recasti loro gravezza e molestia.
Capitolo Quinto
Papa Clemente VII
Clemente papa ora se ne sta ridotto nella stanza più riposta del suo palazzo: essa[8] era di forma ottagona con bellissime colonne di ordine ionico. Da quattro lati ci fanno capo altrettante porte di rare modanature come sapeva condurre la eccellenza dell’arte così comune in quei tempi; gli altri sodi appariscono ornati di quadri rappresentanti martiri di santi, membra segate, capi fessi, brindelli laceri, che infondono, piuttosto che riverenza, ribrezzo; intorno all’architrave superiore si innalza una parete che gli architetti chiamano tamburo, e sul tamburo una cupola elegante a imitazione delle forme immaginate dal divino Brunellesco. Il servo andasse ad aprire la porta, dicendo:
“Ecco gli oratori fiorentini.”
Si apersero le porte, e comparvero Nicolò Capponi, Luigi Soderini, Jacopo Guicciardini e Andreuolo di messer Otto Nicolini, oratori del comune di Firenze. Giunti appena che furono al Pontefice, e si prostrarono al bacio dei santi piedi: ma Clemente, rilevandoli con la voce e con i gesti favellava:
“Alzatevi, messere Nicolò e voi messere Andreuolo; su via, messeri Luigi e Iacopo, sedetevi. L’imperatore ha da curvarsi al cospetto nostro e baciarci i piedi: voi poi siete parenti, amici, tutti figli della medesima madre. Messere Nicolò, che cosa fanno Piero e Filippo vostri? Venite, parliamo di Firenze nostra in famiglia. A quale stato la povera città si trova condotta adesso?”
“Dentro”, – rispose severo messere Nicolò, – “non si patisce difetto di animo né di vettovaglia né d’armi: i barbari fuori, raccolti ai nostri danni, tagliano le viti, ardono gli ulivi, le case distruggono, i popoli uccidono o sperdono. Tanta e sì grande ingiuria appena potrebbe cagionare il terremoto; più poca ne farà il giorno finale; dappertutto seminano il deserto…”
“O Firenze mia, dove ti porteranno questi sconsigliati? Vediamo, fratelli, di rinvenire fra noi modo che valga a salvarla dalla rovina. Accordiamoci a cacciare via i barbari che la divorano… queste immani bestie tedesche, che dalla voce e dall’aspetto non hanno niente di umano, come scriveva la buona anima del nostro messere Nicolò....”
“Padre Santo, fuori di misura piacevole riesce allo spirito nostro contristato”, – riprese a dire il Capponi, —“l’intendere la buona mente della Santità Vostra verso la patria comune… vostra[9] madre e mia. Brevi i patti della pace e consentanei al giusto. La libertà si conservi, si restituisca il dominio, del presente reggimento nulla s’innuovi”.
“Libertà!” – interruppe il Pontefice a mano a mano infervorandosi nel dire: “e parvi libertà questa dove senza ragione parte dei cittadini s’imprigionano, molti più si perseguitano, alcuni si mettono crudelissimamente a morte? Vi sembrano modi civili ardere il palazzo Salviati a Montughi, ardere il nostro a Careggi, proporre di spianare l’altro a Firenze e farci una piazza in vituperio della casa Medici chiamata dei Muli? Ditemi si ì onesto e ordinato quando nella città i più tristie senza pena penetrano nei tempi di Dio, le immagini votive dei miei maggiori riducono in pezzi, me tamburano e vogliono dichiarare ribelle, me vicario di Cristo appiccano in casa Cosimino? Non parliamo di questo. Or via, nobili uomini, alsoltatemi: io voglio avere un reggimento Firenze dove, senza offendere la libertà, uno della mia famiglia, o Ippolito o Alessandro, sia considerato come principale cittadino, voi altri ottimati della città gli componiate un senato il quale insieme con lui attenda alle pubbliche bisogne. Poichì le fortune e la virtù di per sì stesse distinguono l’uomo e il cittadino della povertà e dalla ignoranza, sanzioniamo con legge quanto apparisce necessità di natura”.
“I padri nostri si legarono una volta, combatterono i grandi e li vinsero: adesso noi, degeneri dalla virtù paterna, vorremo al nostro posto istituirci grandi e porre nella nostra terra il mal germe di prossima discordia?…”
Clemente soprastette alquanto prima di rispondere, imperciocchì vedeva ogni arte riuscirgli meno; finalmente, tenendo la faccia dimessa a terra favellò:
“Rimettetevi dunque nelle mie braccia: io mi comporterò con voi non come sudditi ribelli, ma come figliuoli[10] traviati.”
Iacopo Guicciardini, sentendosi divampare il sangue, l’ira prorompergli dai precordi, gridò: “Sudditi ribelli! Alla croce di Dio, da quando in qua siete voi re di Firenze, Giulio dei Medici? Cristo solo governa come principe la nostra città.... Aprite, Giulio, l’animo vostro intero. Ormai non ingannate nessuno, nì uomini nì santi. Voi intendete assoluto signore dominare su Firenze. Voi vorreste che le nostre teste siano scalini per salire sul trono e quindi le prime ad essere calpestate. Portiamo via, liberi uomini, da questa reggia, che non ci subisse sul capo, dacchì l’ira di Dio ci gravita sopra. Fin qui le preghiere e gli scongiuri furono carità patria, adesso sarebbero turpitudine e miseria. Il David del Buonarotti si moverà prima a difendervi che il cuore di questo Filisteo si ammolisca. Venite a giurare nella chiesa di Santa Maria del Fiore di liberare la patria o seppellirci sotto le rovine di lei”. E concitato lo sdegno, da dolore e da impeto inestimabile, pone la mano sul battente della porta per uscire.