Jeffty era rimasto incollato a quel tempo, soltanto cinque anni, cinque.
Ma per i suoi genitori era un incubo continuo dal quale nessuno, né assistenti sociali, né preti, né psicologi infantili, né insegnanti, né amici, né psichiatri e nessun altro mago della medicina, avrebbe mai potuto svegliarli con uno schiaffo o uno scrollone. Per diciassette anni il loro dolore era cresciuto, da una fase all’altra, prima l’incredulo stupore, poi la comprensione, e da questa la preoccupazione, la paura, la confusione, e poi la rabbia, l’antipatia, l’odio più scoperto, e alla fine la ripugnanza e il disgusto più profondo, per finire con la più desolata accettazione.
John Kinzer era un caporeparto alla «Balder Tool Die». Un uomo sulla cinquantina. Per tutti, salvo per colui che la viveva, la sua vita era tremendamente monotona. Niente di speciale, di eccezionale, salvo il fatto di aver generato un ventiduenne di cinque anni.
John Kinzer era un uomo piccolo, morbido, privo di spigoli, con due occhi pallidi che non sembravano mai fissare i miei per più di qualche secondo. Egli si spostava continuamente sulla sua sedia durante la conversazione, e pareva vedesse cose nell’angolo in alto della stanza, cose che nessun altro poteva… o voleva vedere. Presumo che la sua qualifica più adatta fosse ossessionato. Ciò che la sua vita era diventata… be’, ossessionato gli andava a pennello.
Leona Kinzer cercava coraggiosamente di essere all’altezza. Non importava a quale ora della sua giornata capitassi a casa sua, ella cercava sempre di appiopparmi del cibo. E quando Jeffty era in casa, ella gli stava sempre addosso per farlo mangiare: — Tesoro, vuoi un arancio? Un bell’arancio? O un mandarino? Ho dei mandarini, qui. Potrei sbucciarti un mandarino. — Ma c’era chiaramente una tale paura in lei, la paura di suo figlio, che quelle offerte avevano sempre un suono vagamente sinistro.
Leona Kinzer era stata una donna alta, ma gli anni l’avevano incurvata. Sembrava sempre cercare una nicchia, un punto qualunque della parete rivestita di carta da parati in cui svanire, assumere una colorazione mimetica a chiazze rosa, e nascondersi per sempre alla vista dei grandi occhi castani del bambino, cosicché passandole davanti cento volte al giorno, non si rendesse conto che lei era lì, invisibile, trattenendo il fiato. Le sue mani erano rosse a furia di spolverare e lavare. Come se mantenendo immacolate le stanze ella potesse scontare il suo immaginario peccato: l’aver messo alla luce quella straordinaria creatura.
Né John né Leona Kinzer guardavano troppo la televisione. La casa era di solito mortalmente silenziosa, non c’era neppure il sottile gorgogliare dell’acqua nei tubi, lo scricchiolio delle travi di legno che si assestavano, il ronzio del frigorifero. Spaventosamente silenziosa, come se perfino il tempo, nel passare, si tenesse volutamente discosto da essa.
In quanto a Jeffty, era inoffensivo. Egli viveva in quell’atmosfera di ovattata paura e di ottuso disgusto, e se effettivamente lo capiva, non lo diede mai a vedere in alcun modo. Giocava come gioca un bambino, e sembrava felice. Ma doveva aver percepito, alla maniera di un bambino di cinque anni, quanto alieno era in loro presenza.
Alieno. No, questo non era esatto. Egli era troppo umano, semmai. Ma fuori fase, non sincronizzato col mondo intorno a lui, e risonante su una vibrazione diversa da quella dei suoi genitori. Dio solo lo sa. E gli altri bambini non volevano giocare con lui. Man mano che crescevano e diventavano più grandi di Jeffty, lo trovavano sulle prime troppo bambino, poi non interessante, poi semplicemente spaventoso, mentre si andavano accorgendo, col prender forma della loro percezione dell’invecchiamento, che lui non era toccato dal tempo come loro. Perfino quelli più piccoli della sua età, che capitavano per caso dalle sue parti, finivano per allontanarsi rapidamente da lui, come un cane, in strada, corre via al fragore dell’accensione di un’auto.
Così, io rimasi il suo solo amico. Un amico molto più vecchio di lui. Cinque anni. Ventidue anni. Mi era simpatico: molto più di quanto io riesca ad esprimere. Non ho mai capito perché. Ma era così, senza riserve.
Ma poiché passavo del tempo insieme a Jeffty, scoprii che passavo del tempo, per obbligo di cortesia, con John e Leona Kinzer. A cena, a volte il sabato pomeriggio, un’ora o giù di lì quando riaccompagnavo a casa Jeffty dal cinema. Essi mi erano grati fino al servilismo. Io li sollevavo dall’imbarazzante compito di uscire con lui, di dover fingere di fronte al mondo che erano i genitori amorevoli di un bambino perfettamente normale, grazioso, felice. La loro gratitudine si spingeva fino a ospitarmi il più possibile. Ma ogni istante di quel loro scoramento era… ripugnante.
Provavo dispiacere per quei poveri diavoli, ma li disprezzavo per la loro incapacità di amare Jeffty, così vivace e amabile.
Non lo diedi mai a vedere, neppure durante le serate in loro compagnia, imbarazzanti fino all’inverosimile.
Sedevamo lì, in soggiorno… quel soggiorno sempre buio che andava oscurandosi nel crepuscolo, come se la densa penombra che vi gravava in permanenza potesse nascondere al mondo esterno la perenne ignominia che invece luci brillanti avrebbero impietosamente rivelato al mondo: sedevamo lì, dunque, guardandosi l’un l’altro, e io non sapevo cosa dir loro, essi non sapevano che cosa rispondere.
— Allora, come vanno le cose in fabbrica? — chiedevo, con uno sforzo, a John Kinzer.
E John Kinzer scrollava le spalle. Non certo la vita, e meno ancora la conversazione, erano servite a renderlo disinvolto. — Bene, sì, bene — diceva alla fine.
E ricominciava il silenzio.
— Vuoi una fetta di torta e un caffè? — chiedeva Leona. — L’ho fatto fresco fresco stamattina. — Oppure una torta di mele, farcita. O latte caldo con pasticcini. O un budino di riso.
— No, no, grazie, signora Kinzer. Jeffty ed io abbiamo appena mangiato due panini al formaggio. — E poi, di nuovo, silenzio.
Poi, quando l’immobilità e l’imbarazzo diventavano eccessivi perfino per loro (e chi mai sapeva quanto a lungo durava quel silenzio totale quand’erano soli, con quel continuo assillo di cui certamente si guardavano bene dal parlare) Leona Kinzer diceva: — Credo che si sia addormentato.
John Kinzer annuiva: — Non sento più suonare la radio.
Sì, vi garantisco che continuava così, sempre, finché io non riuscivo a trovare una scusa sufficientemente cortese, un pretesto, per quanto esile. Sì, ogni volta andava così, in questo modo. Ogni volta… salvo una.
— Non so più che cosa fare — disse Leona. Scoppiò a piangere. — Non c’è nessun cambiamento, non una sola giornata di pace.
Suo marito riuscì a trascinarsi fuori dalla vecchia poltrona e ad avvicinarsi a lei. Si chinò e cercò di calmarla, ma era fin troppo chiaro, dalla goffaggine con cui le toccò i capelli grigi, che la sua capacità di mostrarsi compassionevole era, per così dire, atrofizzata. — Ssst, Leona, va tutto bene. Sssst. — Ma Leona continuò a piangere. Le sue mani graffiavano i braccioli della poltrona rivestiti di velluto.