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Poi ella disse: — A volte vorrei che fosse nato morto.

John alzò gli occhi e si guardò intorno. Forse negli angoli bui della stanza, cercava quelle ombre senza nome che vi stavano sempre acquattate. Cercava forse Dio, in quegli spazi? — Non puoi dirlo sul serio — lui replicò, sommesso, patetico, sollecitandola con la tensione del suo corpo e il tremito della sua voce a ritirare subito ciò che aveva detto, prima che Dio udisse quel tremendo pensiero. Ma Leona l’intendeva davvero così, l’intendeva moltissimo.

Quella sera riuscii a sgusciar via prima del solito. Essi non volevano testimoni alla loro vergogna. Io fui ben lieto di andarmene.

E me ne restai lontano per una settimana. Lontano da loro, da Jeffty, dalla strada in cui abitavano, perfino dal loro quartiere.

Io avevo la mia vita. Il negozio, la contabilità, i colloqui con i fornitori, il poker con gli amici, donne graziose che portavo in ristoranti ben illuminati, i miei genitori… e dovevo mettere l’antigelo nella macchina, lamentarmi con la lavanderia che mi metteva troppo amido nei colletti e nei polsini, e ancora la ginnastica in palestra, le tasse, cogliere sul fatto Jan o David (chiunque dei due fosse) che rubavano dal registratore di cassa. Avevo la mia vita.

Ma neppure quella sera poté tenermi lontano da Jeffty. Venne a trovarmi in negozio e mi chiese di accompagnarlo al rodeo. Ed eccoci a rifar coppia in qualche modo, un ventiduenne con tutt’altri interessi… e un cinquenne. Non mi sono mai soffermato a riflettere su ciò che ci univa; pensai sempre che fosse un’abitudine contratta con gli anni… e magari l’affetto per un bambino che avrebbe potuto essere il fratellino minore che non avevo mai avuto (ricordavo quando avevamo giocato insieme, quando avevamo avuto entrambi la stessa età. Io ricordavo quel periodo, e Jeffty era ancora lo stesso).

Poi, un giorno andai a prenderlo per accompagnarlo a un cinema dove proiettavano due film, e soltanto quel pomeriggio cominciai a notare alcune cose di cui avrei dovuto accorgermi chissà quanto prima.

Arrivai a piedi alla casa dei Kinzer, convinto che, come al solito, avrei trovato Jeffty seduto sui gradini, sul davanti della casa, oppure sulla sedia a dondolo, nella veranda, che mi aspettava. Ma non lo vidi da nessuna parte.

Entrare dentro la casa, nel buio e nel silenzio, immerso com’ero nel vivido sole di maggio, mi parve impensabile. Sostai per qualche attimo sulla strada, poi portai le mani a imbuto davanti alla bocca, e gridai: — Jeffty? Ehi, Jeffty, vieni fuori, andiamo. Faremo tardi.

La sua voce mi giunse debole, come se uscisse dal sottosuolo.

— Sono qui, Donny.

Potevo sentirlo, ma non riuscivo a vederlo. Era Jeffty, non c’erano dubbi in proposito: nessuno, salvo Jeffty, chiamava «Donny» il presidente e unico proprietario della Horton TV Sound Center, Donald H. Horton. Non mi aveva mai chiamato in altro modo.

(Non è una bugia: per quanto riguarda il pubblico, io sono l’unico proprietario del Centro. La società di fatto con mia zia Patricia esiste soltanto per consentirmi di ripagare il prestito che mi ha fatto, integrando la somma di cui ero venuto in possesso alla maggiore età, somma che avevo ereditato da mio nonno quando avevo dieci anni. Non che fosse un gran prestito, solo diciottomila, ma le avevo chiesto di essere la mia socia silenziosa, perché si era presa cura di me quand’ero bambino).

— Dove sei, Jeffty?

— Sotto la veranda, nel mio posto segreto.

Raggiunsi il fianco della veranda, mi chinai e tolsi la grata di vimini. Là sotto, sulla terra battuta, Jeffty si era confezionato il suo luogo segreto. Alcune ceste arancioni piene di libri, un tavolino e alcuni cuscini; alcune grosse candele sgocciolanti garantivano l’illuminazione, e noi avevamo l’abitudine di nasconderci là sotto, quando avevamo entrambi… cinque anni.

— Che cosa stai combinando? — gli chiesi, strisciando dentro e tirandomi la grata dietro le spalle, per chiuderla. Faceva fresco, sotto la veranda, la terra esalava un odore confortante e le candele ardevano con una sorta di vaga complicità. Qualunque ragazzino si sarebbe sentito a casa sua, in quel luogo segreto: non c’è mai stato un ragazzino, infatti, che non abbia trascorso le ore più felici, più creative, più deliziose e misteriose della sua vita in un simile luogo arcano.

— Sto giocando — rispose. Stringeva qualcosa di rotondo e dorato, che gli riempiva il palmo della piccola mano.

— Ti sei dimenticato che dovevamo andare al cinema?

— Niente affatto. Ti stavo giusto aspettando qui.

— Papà e mamma sono a casa?

— Mamma.

Capii allora perché mi stava aspettando sotto la veranda. Non indagai oltre. — Che cos’hai lì in mano?

— Il Distintivo Decodificatore Segreto di Capitan Mezzanotte — dichiarò, esibendolo sul palmo della mano.

Lo fissai come inebetito per parecchi minuti, poi mi riscossi e contemplai con occhi sgranati il miracolo che Jeffty stringeva in mano. Un miracolo che, semplicemente, non poteva esistere.

— Jeffty — bisbigliai, quasi timoroso di distruggere l’incanto, — come l’hai avuto?

— È arrivato oggi per posta. L’avevo chiesto.

— Dev’esserti costato un sacco di soldi.

— Oh, no. Dieci centesimi e due buoni-premio di due scatole di Ovomaltina.

— Posso vederlo? — La mia voce tremava, e anche la mano che gli tesi. Egli mi diede il distintivo, e io accolsi il miracolo nel cavo della mano. Era meraviglioso.

Ricordate? Capitan Mezzanotte era un programma diffuso in tutta la nazione, nel 1940. Era una trasmissione sponsorizzata dall’Ovomaltina. E ogni anno approntavano un nuovo Distintivo Decodificatore Segreto dello Squadrone. E alla fine di ogni trasmissione, davano un indizio su quella che sarebbe stata la puntata successiva… un indizio che soltanto i ragazzini col distintivo ufficiale potevano decifrare. Avevano smesso di produrre quei meravigliosi distintivi decodificatori nel 1949. Ricordo quello che avevo nel 1945: era meraviglioso. Aveva una lente d’ingrandimento al centro del quadrante del codice. Le trasmissioni di Capitan Mezzanotte cessarono nel 1950, e sebbene diventasse una serie televisiva (di vita breve) verso la metà degli anni Cinquanta, con tanto di Distintivi Decodificatori distribuiti nel 1955 e ’56, per ciò che mi riguarda i veri distintivi finirono dopo il 1949.

Il Decodificatore di Capitan Mezzanotte che reggevo in mano, quello che Jeffty mi aveva detto di aver ricevuto per posta, per dieci centesimi (dieci centesimi!!!) e due buoni-premio di Ovomaltina, era di metallo dorato, lustro, nuovo di zecca, neppure un’ammaccatura o una macchia di ruggine, come sui distintivi vecchi che si possono trovare a un prezzo esorbitante nelle botteghe dei collezionisti, ogni tanto… Era un Decodificatore nuovo. E l’anno impresso su di esso era quello attuale.

Ma Capitan Mezzanotte non esisteva più. Niente di simile esisteva alla radio. Avevo ascoltato una o due imitazioni assai scadenti delle vecchie trasmissioni, attualmente in programma, storie monotone, effetti sonori rabberciati, la sensazione complessiva che si ricavava era di qualcosa di sbagliato, datato, trito. Eppure, io, in quel momento, tenevo in mano un nuovo distintivo.

— Jeffty, parlami di questo — dissi.

— Per dirti che cosa, Donny? È il mio nuovo Distintivo Decodificatore Segreto. Mi serve per capire che cosa succederà domani.