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— Domani… dove?

— Nel programma.

— Quale programma?

Mi fissò, come se io facessi apposta a non capire: — Il programma di Capitan Mezzanotte, Donny! — Ero davvero sciocco.

Non riuscivo ancora a capire bene. Ero lì, a bocca aperta, e ancora non capivo che cosa stesse succedendo. — Vuoi dire uno di quei dischi che hanno registrato dai vecchi programmi radio? È questo che intendi, Jeffty?

— Quali dischi? — Adesso era lui che non capiva.

Ci fissammo, là sotto la veranda. E poi dissi, molto lentamente, quasi timoroso della risposta: — Jeffty, come fai a sentire Capitan Mezzanotte?

— Ogni giorno. Alla radio. Alla mia radio. Ogni giorno alle cinque e mezza.

Notizie. Musica, musica sciocca, banale, e notizie. Ecco che cosa c’era ogni giorno alla radio, alle cinque e mezza. E non Capitan Mezzanotte. Lo Squadrone Segreto non veniva più trasmesso da vent’anni.

— Possiamo sentirlo, oggi? — gli chiesi.

— Donny! — esclamò. Quant’ero sciocco. Lo capii dal modo in cui lo disse, anche se sulle prime non sapevo perché. Poi me ne resi conto: oggi era sabato. Capitan Mezzanotte era in programma dal lunedì al venerdì. Non al sabato o alla domenica.

— Andiamo al cinema?

Dovette chiedermelo due volte. La mia mente era altrove. Niente di definito. Nessuna conclusione. Nessuna supposizione avventata su cui balzare. Soltanto un agitarsi scomposto qua e là, cercando di capire e concludendo, come voi avreste concluso, come chiunque avrebbe concluso piuttosto che accettare la verità, l’impossibile e meravigliosa verità, concludendo infine che doveva esserci una spiegazione semplice che non intravedevo ancora. Qualcosa d’insignificante, di banale, magari, come il passaggio del tempo che ci porta via tutte le cose vecchie e buone, imbrogliandoci e dandoci in cambio ninnoli di plastica. E tutto nel nome del progresso.

— Andiamo al cinema, Donny?

— Ci puoi scommettere gli stivali che ci andiamo, ragazzino — dissi. E sorrisi. E gli porsi il Decodificatore. E lui lo mise nella tasca dei calzoni. E poi strisciammo fuori da sotto la veranda. E andammo al cinema. E nessuno di noi due disse più nulla di Capitan Mezzanotte per tutto il resto della giornata. E non ci fu un solo minuto, per tutto il resto della giornata, che io non fossi ossessionato dal suo pensiero.

La settimana successiva fu tempo d’inventario. Non vidi Jeffty fino a giovedì. Confesso che me ne andai sul presto, lasciando il negozio nelle mani di Jan e David, dicendo loro che avevo certe faccende da sbrigare. Erano le quattro del pomeriggio. Arrivai dai Kinzer alle quattro e tre quarti. Mi aprì Leona; aveva un aspetto esausto e remoto. — Jeffty è da queste parti? — Lei disse che era sopra nella sua stanza…

… ad ascoltare la radio.

Salii i gradini a due alla volta.

D’accordo, avevo finalmente compiuto quel passo illogico e impossibile. Se quello sconvolgimento della realtà avesse coinvolto chiunque altro non fosse Jeffty, adulto o bambino, avrei trovato delle risposte più accettabili. Ma si trattava di Jeffty, chiaramente un ricettacolo di vita di tipo diverso, e ciò che lo riguardava non poteva rientrare nello schema ordinario delle cose.

Lo ammetto: volevo sentirlo con i miei orecchi, volevo…

Anche con la porta chiusa riconobbi il programma: «Ecco che va, Tennessee! Prendilo!».

Vi fu il pesante rimbombo della fucilata, il sibilo acuto della pallottola, poi la stessa voce urlò trionfante: «Preso! Centrato in pie-e-e-e-eno!».

Stava ascoltando l’American Broadcasting Company, 790 chilocicli: Tennessee Kid, uno dei miei programmi favoriti degli anni Quaranta, una serie western che non ascoltavo più da quasi vent’anni, poiché da quasi vent’anni non esisteva più.

Mi sedetti sull’ultimo gradino in cima alla scala, lì, nel corridoio al secondo piano della casa dei Kinzer, e ascoltai il programma. Non era una ripetizione di un vecchio episodio, poiché, nel corso della narrazione, vi erano di tanto in tanto riferimenti a fatti culturali e tecnologici correnti, e frasi che non erano state di uso comune negli anni Quaranta: aerosol, bombolette, tatuaggi al laser, Tanzania, l’espressione «iperteso».

Non potevo in alcun modo nascondermi che Jeffty stesse ascoltando una nuova puntata di Tennessee Jed.

Corsi giù, uscii dalla porta principale e raggiunsi la mia auto. Leona doveva essere in cucina. Girai la chiavetta e accesi la radio, e la sintonizzai sui 790 chilocicli. La stazione della ABC. Musica rock.

Restai lì seduto per alcuni attimi, poi feci passare l’indice da un’estremità all’altra del quadrante. Musica, notizie, programmi di varietà. Niente Tennessee Jed. Ed era una Blaupunkt, la migliore radio che si potesse avere. Non era qualche emittente secondaria che non riuscivo a captare: semplicemente, non esisteva!

Un paio di minuti dopo spensi la radio e l’accensione e ritornai di sopra senza far rumore. Tornai a sedermi sul gradino in cima alla scala e ascoltai l’intero programma. Era meraviglioso!

Eccitante, pieno d’immaginazione, di tutte le più affascinanti innovazioni dei radiogrammi, così come le ricordavo. Ed era moderno. Non era un pezzo d’antiquariato, una riedizione per blandire i desideri di una fascia d’ascoltatori sempre più esigua che moriva dalla voglia di rivivere i vecchi tempi. Era un nuovo spettacolo, con le vecchie voci, ma giovani e vivaci più che mai. Perfino la pubblicità reclamizzava prodotti attuali, anche se non era chiassosa e insultante come gli annunci che si ascoltano alla radio oggigiorno.

E quando Tennessee Jed finì alle cinque in punto, sentii Jeffty che cambiava stazione finché non udì la voce familiare di Glenn Riggs che annunciava: «E ora, Hop Harrigan, l’asso americano dell’aria!». Si udì il fragore di un aereo in volo. Era un aereo a elica, non un jet! Non il suono al quale oggi i ragazzini sono abituati sin dalla nascita, ma il suono con cui io ero cresciuto, il vero suono di un aereo, il suono ringhioso, rauco, che andava su di giri, tipico degli aerei che G-8 e i suoi Assi da Combattimento pilotavano, che pilotava Capitan Mezzanotte, che pilotava Hop Harrigan. E poi sentii Hop che diceva: «CX-4 chiama torre di controllo, CX-4 chiama torre di controllo. Siamo in attesa!». Una pausa, quindi: «Okay, qui Hop Harrigan. Arriviamo!».

E Jeffty che aveva lo stesso problema di tutti noi, negli anni Quaranta, con tanti programmi che mettevano i nostri eroi, ugualmente favoriti, l’uno contro l’altro su differenti stazioni, dopo aver presentato i propri rispetti a Hop Harrigan e a Tank Tinker, girò il quadrante e tornò alla ABC, dove udii un colpo di gong, la disordinata cacofonia di un chiacchierio in cinese senza senso, e l’annunciatore che urlava: «Te-e-erry e i pirati!».

Restai seduto lì sull’ultimo gradino e ascoltai Terry e Connie e Flip Corkin e, Dio mi aiuti, Agnes Moorehead nella parte della Dragon Lady, tutti, insomma, in una nuova avventura nella Cina Rossa che non esisteva ai giorni della versione personale dell’Oriente creata da Milton Caniff nel 1937, con i pirati del fiume e Ciang Kai Scek e i signori della guerra e l’ingenuo imperialismo della diplomazia americana delle cannoniere.

Restai lì seduto e ascoltai tutto il programma, e poi ascoltai anche Superman, una parte di Jack Armstrong, the All-American Boy, e parte di Capitan Mezzanotte, e John Kinzer tornò a casa, ma né lui né Leona salirono di sopra per scoprire che cosa mi fosse accaduto, o dove fosse Jeffty, e restai lì ancora seduto, e scoprii che avevo cominciato a piangere, fino a quando Jeffty non mi sentì e aprì la porta: mi vide, uscì e mi fissò, in preda a un’infantile confusione. Ed ecco in quel momento la stazione mandare in onda la musica d’inizio di Tom Mix, «When it’s Round-up Time in Texas and the Bloom is on the Sage», e Jeffty mi toccò la spalla, mi sorrise e disse: — Ehi, Donny, vuoi entrare e ascoltare con me la radio?