— Oh, ragazzi! — esclamai. Sorridevo da orecchio a orecchio. E poi guardai giù e vidi il blocco dei moduli delle ordinazioni sul sedile. Mi ero dimenticato di lasciarlo al negozio.
— Devo fermarmi al Centro — dissi. — Devo lasciar giù qualcosa. Mi ci vorrà soltanto un minuto.
— Okay — fece Jeffty. — Ma non farai tardi, vero?
— Ci puoi giurare, ragazzino — replicai.
Quando mi fermai al parcheggio dietro il Centro, egli decise di venire con me. Poi avremmo proseguito a piedi fino al cinema. La nostra non è una città tanto grande. Ci sono soltanto due cinema, l’Utopia e il Lyric. Noi eravamo diretti all’Utopia, a tre isolati dal Centro.
Entrai nel negozio col blocco dei moduli, e trovai il pandemonio. David e Jan stavano servendo due clienti ciascuno, e c’era altra gente nel negozio in attesa di esser servita. Jan si voltò verso di me, il suo volto era un’angosciata maschera d’implorazione. David stava correndo dal deposito alla sala audizioni, e tutto ciò che riuscì a mormorare quando mi passò accanto fulmineo, fu: «Aiuto!», e poi scomparve.
— Jeffty — dissi, curvandomi verso di lui, — ascoltami, concedimi qualche minuto. Jan e David sono nei guai con tutta questa gente. Non faremo tardi, te lo prometto. Soltanto, lascia che mi sbarazzi di un paio di questi clienti. — Parve innervosirsi, ma annuì.
Gli indicai una sedia: — Mettiti qui per un po’, e sarò subito da te.
Si avvicinò alla sedia, tranquillo nonostante tutto, e vi si accomodò.
Io cominciai a occuparmi della gente che voleva i televisori a colori. Questa era la prima grossa infornata di televisori a colori che fosse arrivata — la televisione a colori cominciava ad avere prezzi ragionevoli soltanto adesso, e quella era la prima campagna pubblicitaria della Sony — ed era per me tempo di vacche grasse. Mi vedevo col prestito completamente pagato e il Centro che per la prima volta mi garantiva un profitto.
Erano affari.
E nel mio mondo i buoni affari hanno la precedenza.
Jeffty era lì e fissava la parete. Lasciate che vi parli della parete.
Un insieme di mensole e pilastri che dal pavimento arrivavano a meno di un metro dal soffitto. I televisori erano stati sistemati in bell’ordine, in varie file. Trentatré televisori. E tutti contemporaneamente in funzione. In bianco e nero, piccoli, grandi, tutti accesi. Jeffty, quel sabato pomeriggio, si trovò seduto davanti a trentatré televisori in funzione. Noi, nella nostra città, possiamo prendere un totale di tredici canali, compresi alcuni programmi educativi. Su un canale c’era il golf, sul secondo il baseball, sul terzo una partita a bowling giocata da personaggi famosi, il quarto canale mostrava una conversazione religiosa, il quinto uno spettacolo di danza di ragazzi e ragazze, il sesto dava la replica di una commedia, il settimo quella di un poliziesco, l’ottavo era un documentario sulla natura e mostrava interminabilmente un uomo che gettava la lenza con una mosca come esca, il nono dava notizie e commenti, il decimo mostrava una gara di corsa, sull’undicesimo un uomo calcolava dei logaritmi su una lavagna, sul dodicesimo una donna faceva ginnastica, e sul tredicesimo c’era un cartone animato spagnolo assai mal fatto. Tutti questi spettacoli, salvo tre, erano ripetuti su tre diversi apparecchi. Jeffty sedette e guardò la parete di televisori, quel sabato pomeriggio, mentre io vendevo il più rapidamente possibile, e a pronti contanti, per ripagare mia zia Patricia e restare in contatto col mio mondo. Si trattava di affari.
Avrei dovuto pensarci. Avrei dovuto capire che cos’era il presente e il modo in cui uccideva il passato. Ma stavo vendendo a piene mani. E quando finalmente lanciai un’occhiata a Jeffty, mezz’ora più tardi, pareva un altro bambino.
Sudava. Quel terribile sudore dovuto alla febbre, quando vi coglie un’infezione intestinale. Era smorto, pallido come un verme, e le sue piccole mani stringevano con tanta forza i braccioli della sedia, che potevo vedere le nocche bianche sporgere. Mi precipitai da lui, scusandomi con una coppia di mezza età che stava esaminando il nuovo modello da ventun pollici Mediterranean.
— Jeffty!
Mi guardò, ma i suoi occhi non riuscirono a mettermi a fuoco. Era in preda a un assoluto terrore. Lo tirai giù dalla sedia e mi avvicinai con lui verso la porta d’ingresso, e i clienti che avevo lasciato gridarono: — Ehi! — L’uomo di mezza età disse: — Me lo vuol vendere questo affare, o no?
Spostai lo sguardo da lui a Jeffty, e poi di nuovo a lui. Jeffty era come uno zombie. Era venuto fin dove io l’avevo trascinato, le sue gambe sembravano di gomma, e strisciava i piedi. Il passato veniva divorato dal presente, una sensazione come di sordo dolore.
Tirai fuori di scatto i soldi da una tasca e li cacciai in mano a Jeffty:
— Ragazzino, ascoltami… adesso esci subito di qui! — Lui non riusciva ancora a mettere a fuoco le immagini. — Jeffty — dissi, con quanta più fermezza avevo, — ascoltami! — Il cliente di mezza età e sua moglie stavano venendo verso di noi. — Ascolta, ragazzino, esci di qui immediatamente. Vai a piedi fino all’Utopia e compera i biglietti. Ti raggiungerò subito.
L’uomo di mezza età e sua moglie ci erano quasi addosso. Spinsi Jeffty attraverso la porta e lo vidi allontanarsi barcollando verso la direzione sbagliata, per poi fermarsi, riprendersi, voltarsi, tornare indietro e passare di nuovo davanti al Centro, in direzione dell’Utopia. — Si, signore — dissi, raddrizzandomi e fronteggiandoli. — Sì, signora, è un apparecchio formidabile con alcune sensazionali caratteristiche! Se volete venire con me…
Vi fu un tremendo suono, straziante, come di qualcuno che soffrisse, ma non riuscii a capire da quale canale provenisse, o da quale apparecchio.
La maggior parte dell’accaduto l’appresi più tardi dalla ragazza della biglietteria e da alcune persone che conosco e che vennero da me a dirmelo. Quando arrivai all’Utopia, quasi venti minuti dopo, Jeffty era stato picchiato fin quasi a esser ridotto in poltiglia, ed era stato portato nell’ufficio del direttore.
— Non avete visto un bambino, di circa cinque anni, con dei grandi occhi e capelli castani, lisci… Mi stava aspettando.
— Oh, credo che sia il bambino che quei ragazzi hanno picchiato!
— Che cosa? E dov’è adesso?
— Lo hanno portato nell’ufficio del direttore. Nessuno sapeva chi fosse, o dove fossero i suoi genitori…
Una ragazza con l’uniforme da maschera gli stava ripulendo la faccia con una salvietta umida. Le strappai di mano la salvietta e le ordinai di uscire dall’ufficio. Ella si mostrò offesa e sbottò in qualcosa di villano, ma se ne andò. Mi sedetti sull’orlo del divano e cercai di pulir via il sangue dalle lacerazioni, senza riaprire le ferite dove si era già formata la crosta. Entrambi gli occhi erano gonfi, e chiusi. La bocca era malamente escoriata. Anche i capelli erano incrostati di sangue disseccato.
Aveva fatto la fila dietro a due ragazzi sui dieci anni. Avevano cominciato a vendere biglietti mezz’ora prima dello spettacolo, e per un quarto d’ora, ancora, le porte non sarebbero state aperte. Lui aveva aspettato. I ragazzi davanti a lui stavano ascoltando una partita di calcio da una radio portatile. Jeffty aveva voluto ascoltare chissà quale programma. Dio solo sa che cosa poteva essere stato, Grand Central Station, Land of the Lost, Dio solo sa. Aveva chiesto in prestito la loro radio per ascoltare quel programma per un minuto, c’era stato uno spazio pubblicitario o qualcosa del genere e i ragazzi gli avevano dato la radio, probabilmente per una maligna forma di cortesia che permettesse loro, poi, di mostrarsi offesi e di suonarle al ragazzino. Egli aveva cambiato stazione… ed essi erano stati incapaci di ritrovarla, per ascoltare di nuovo la partita. La radio era bloccata sul passato, su una stazione che non esisteva per nessuno, salvo Jeffty.