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Era stato picchiato selvaggiamente, mentre tutti stavano a guardare.

E poi i due ragazzi erano scappati via.

E io l’avevo lasciato solo, l’avevo lasciato a combattere il presente senza le armi adeguate. Lo avevo tradito per vendere un ventun pollici Mediterranean, e adesso il suo viso era carne ridotta in poltiglia. Egli gemette qualcosa d’inaudibile e singhiozzò sommesso.

— Sssst, tutto a posto, ragazzino, sono Donny. Sono qui. Ti porto a casa, andrà tutto bene.

Avrei dovuto accompagnarlo direttamente all’ospedale. Non so perché non lo feci. Avrei dovuto. Avrei dovuto farlo.

Quando lo trasportai attraverso la soglia, John e Leona Kinzer si limitarono a fissarmi. Non si mossero per prendermelo dalle braccia. Una delle sue mani penzolava inerte. Era cosciente, ma appena appena. Essi mi fissarono, lì nella semioscurità di un sabato pomeriggio, nel presente. Io li guardai. — Un paio di ragazzi lo hanno picchiato al cinema. — Lo sollevai di qualche centimetro, fra le braccia, e lo porsi a loro. Essi mi fissarono, ci fissarono entrambi, senza niente nei loro occhi, senza alcun movimento. — Gesù Cristo — urlai. — È stato picchiato! È vostro figlio! Non volete neppure toccarlo? Che razza di gente siete, per l’inferno?

Poi Leona si mosse verso di me, molto lentamente. Ci fronteggiò per alcuni istanti, e sul suo viso era dipinto uno stoicismo plumbeo, terribile a vedersi. Voleva dire: Ho già passato momenti come questo, molte volte, e non posso sopportare di passarne ancora. Eppure eccomi qui.

Perciò lo diedi a lei. Dio mi aiuti, lo consegnai a lei.

E lei lo portò di sopra per lavargli via il sangue e il dolore.

John Kinzer e io restammo nel soggiorno in ombra, distanti l’uno dall’altro, e ci fissammo.

Egli non aveva nulla da dirmi.

Gli passai accanto, scostandolo, e mi lasciai cadere su una poltrona.

Tremavo.

Di sopra, sentii scorrere l’acqua del bagno.

Dopo quello che sembrò un tempo lunghissimo, Leona scese dabbasso asciugandosi le mani sul grembiule. Si sedette sul sofà, e un attimo dopo John si sedette accanto a lei. Dal piano di sopra mi giunse un suono di musica rock.

— Vuoi una fetta di torta? — mi chiese Leona.

Non risposi. Stavo ascoltando quella musica… Musica rock. Alla radio. C’era una lampada sul tavolino accanto al sofà. Irradiava una luce debole, futile, nel soggiorno in ombra. Musica rock del presente alla radio del piano di sopra? Feci per dire qualcosa, e poi seppi…

Balzai in piedi proprio mentre un orrido crepitio soffocava la musica, e la luce della lampada sul tavolino si fece più fioca, ancora più fioca, e tremolò. Io urlai, non so che cosa urlai, e corsi su per la scala.

I genitori di Jeffty non si mossero. Rimasero lì, seduti con le mani incrociate, là dove erano rimasti per così tanti anni.

Incespicai e caddi due volte mentre mi precipitavo su per le scale.

Non c’è molto alla televisione che m’interessi. Ho comperato un vecchio apparecchio radio Philco a forma di cattedrale in un negozio di roba usata, e ho sostituito tutte le parti bruciate con valvole originali prese dalle vecchie radio ancora funzionanti che sono riuscito a trovare. Non ho usato transistor o circuiti stampati. Non avrebbero funzionato.

A volte sono rimasto davanti a quell’apparecchio per ore intere, girando la manopola avanti e indietro sul quadrante, quanto più lentamente si possa immaginare, così lentamente che quasi pareva che l’indice neppure si muovesse. Ma non sono mai riuscito a trovare Capitan Mezzanotte o The Land of the Lost o The Shadow o Quiet Please.

Dunque, lei lo amava ancora un po’, anche dopo tutti quegli anni. Io non riesco a odiarli: essi volevano soltanto disperatamente vivere nel mondo presente. Il che non è poi una cosa così terribile.

Tutto considerato, è un buon mondo. È molto meglio di com’era un tempo, e in molti sensi. La gente non muore più a causa delle vecchie malattie. Muore a causa di quelle nuove, ma questo è il Progresso, non è vero?

Non è vero?

Ditemelo.

Qualcuno me lo dica, per favore.