Ovviamente non c’erano abbastanza elementi per ottenere un mandato di arresto.
Non un mandato di arresto, d’accordo. Però, forse, un mandato di perquisizione…
Sandra registrò i file su cui aveva lavorato, spense il terminale e andò nell’ufficio del capitano del distretto.
Occorsero cinque veicoli per portarli là tutti: due auto di pattuglia ciascuna con una coppia di agenti in uniforme, un’auto della Regione di York, con un funzionario di polizia di quel dipartimento (la loro incursione sarebbe avvenuta sul territorio di York) la macchina di Sandra Philo con a bordo lei e Jorgenson (il capo della Divisione Computer-Crimini), e un furgone blu della DCC su cui c’erano cinque analisti con tutto il loro equipaggiamento.
Il convoglio si fermò nel parcheggio del n° 88 di Connie Crescent alle 10:17 di mattina. Sandra e i quattro agenti in uniforme entrarono subito dall’ingresso principale; Jorgenson andò nel furgone della DCC per parlare coi suoi analisti.
Il receptionist della Mirror Image, un asiatico di mezz’età, si alzò con espressione sgomenta nel vedere uscire dall’ascensore Sandra e i quattro agenti. — Scusate, ma cosa… chi desiderate? Posso fare qualcosa per voi?
— Per favore, non tocchi il terminale del suo computer. Non chiuda cassetti, non rimuova documenti — lo avvertì Sandra. — Se lo fa, potrà essere incriminato. Abbiamo un mandato di perquisizione. — Gli mostrò il documento timbrato dal tribunale.
— È meglio che chiami subito il Dr. Muhammed — disse l’uomo.
— Lo chiami — annuì Sandra. Schioccò le dita e indicò a una agente di restare lì, per controllare che il receptionist non usasse il suo terminale. Seguita dagli altri tre agenti lasciò l’atrio ed entrò negli uffici.
Nel lungo corridoio principale un uomo snello sui quarant’anni, di pelle olivastra, uscì da una porta.
— Posso chiedervi cosa desiderate? — domandò, preoccupato.
— Lei è Sarkar Muhammed? — lo interrogò Sandra, dirigendosi verso di lui.
— Sì. Ma che significa questa…
— Io sono l’ispettore detective Philo, della Polizia Metropolitana di Toronto. — Gli mostrò il mandato di perquisizione. — Abbiamo motivo di credere che un crimine correlato ai computer sia stato commesso nella sede della vostra società. Questo documento ci autorizza a perquisire non solo gli uffici della Mirror Image ma anche i vostri sistemi computerizzati.
In quel momento la porta a vetri dell’atrio della reception si spalancò e Jorgenson fece il suo ingresso, seguito dai suoi cinque analisti. — Assicuratevi che nessuno degli impiegati tocchi i documenti scritti e i computer — ordinò l’uomo al poliziotto in uniforme più anziano. Gli agenti si diressero nei vari uffici. Una delle pareti del corridoio era di vetro, e nell’interno si vedeva un vasto laboratorio pieno di consolle e apparecchi elettronici. Jorgenson lo indicò a un paio dei suoi analisti. — Davis, Kato, voi occupatevi di quella roba là.
— I due uomini cercarono di aprire la spessa porta di cristallo, ma sulla serratura c’era la piastra di un file scanner diverso da quelli dell’ingresso.
— Dr. Muhammed — disse Sandra, — il nostro mandato ci dà il diritto di sfondare le porte, ove sia necessario. Se lei desidera evitare danni alle sue proprietà, la prego di aprire quella porta.
— Senta — disse Muhammed, — noi non abbiamo fatto niente d’illegale qui.
— Apra la porta, prego — disse Sandra con fermezza.
— Io esigo di far esaminare quel mandato dai miei avvocati.
— Molto bene — disse Sandra. — Jones, sfondala.
— No! — esclamò Muhammed. — E va bene. Come volete.
— Si avvicinò alla porta e appoggiò un pollice sulla piastra azzurra. La serratura scattò e il battente scivolò di lato. Davis e Kato entrarono nel laboratorio; il primo si diresse subito alla consolle principale, l’altro cominciò un inventario dei nastri, dei dischi e delle unità collegate da cavi ottici. Erano un centinaio.
Jorgenson si rivolse a Muhammed. — Voi avete qui un laboratorio IA. Dove si trova?
— Noi non abbiamo fatto niente d’illegale — ripetè Muhammed.
Uno degli agenti in uniforme riapparve, in fondo al corridoio. — Ci sono altre attrezzature quaggiù, Karl!
Jorgenson si avviò da quella parte, con gli altri tre analisti. Anche Sandra li seguì, guardando le etichette su tutte le porte che oltrepassavano.
Il receptionist asiatico era sulla porta dell’atrio, dietro di loro, e li guardava con aria angosciata. Muhammed si girò a gridargli:
— Chiama Kejavee, il mio avvocato… digli cosa sta succedendo. — E si affrettò dietro Jorgenson.
Quando il receptionist l’aveva avvertito, Muhammed stava lavorando nel laboratorio della IA. Aveva lasciato la porta aperta. Prima che avesse raggiunto i suoi indesiderati visitatori, Jorgenson era già alla consolle del computer più grosso e stava staccando la tastiera. Il poliziotto fece un cenno a uno dei suoi uomini, che gli consegnò un’altra tastiera chiusa in rivestimento di vetro nero e coi tasti argentati. Era un’unità diagnostica: ogni tasto premuto, ogni risposta del computer e ogni ritardo negli accessi al disco sarebbero stati registrati.
— Ehi! — protestò Muhammed. — Questi sono sistemi delicatissimi. Andateci piano.
Jorgenson lo ignorò. Sedette sullo sgabello da bar e tolse dalla sua cassetta degli utensili una scatola di vinile. Dentro c’era un assortimento di dischetti, Compact Disk e schede PCMCIA. Scelse una scheda adatta al drive della consolle, la inserì, quindi batté alcuni ordini sulla sua tastiera nera.
Lo schermo del computer si accese, e subito dopo si riempì di dati diagnostici sul sistema operativo e sul contenuto.
— Roba di lusso, eh? — commentò Jorgenson, impressionato. — Schede di memoria che arrivano a 512 gigabyte di RAM, cinque co-processori matematici collegati in parallelo, e l’architettura del bus capace di autoprogrammarsi. — Batté la barra spaziatrice; un altro schermo si accese. — Firmware ultimo modello, anche. Bella cosa.
L’uomo controllò il boot, resettò il computer, e quando apparve di nuovo il prompt del sistema operativo chiamò a schermo una lista delle direttrici.
— Che cosa state cercando? — volle sapere Muhammed.
— Tutto — disse Sandra, entrando nella stanza. Poi, a Jorgenson: — Qualche problema?
— Finora no. Sono macchine che vengono lasciate sempre accese, così non c’è bisogno di una parola-chiave per vedere il boot, ma adesso per entrare nei programmi sarà necessario scardinarne qualcuna.
Muhammed s’era scostato da loro indietreggiando fino a una consolle dall’altra parte della stanza: una consolle su cui c’era un microfono.
— Sistema operativo — disse l’uomo a bassa voce. Poi, senza aspettare il prompt: — Login. Nome: Sarkar.
— Buongiorno, Sarkar — disse il computer. — Dobbiamo terminare l’ultima sessione di lavoro?
Sandra Philo si avvicinò in pochi rapidi passi e gli puntò contro il collo la canna del suo stunner. — Non lo faccia — lo avvertì, con voce dura. Allungò una mano sulla consolle e spense l’interruttore su cui era scritto «input vocale.»
In quel momento Kawalski, il funzionario della Regione di York, apparve sulla porta. — Al piano di sopra abbiamo trovato un altro laboratorio… con una poltrona da barbiere — disse al gruppo in generale. Poi, rivolto a Muhammed: — Fate barba e capelli ai clienti, qui?
Muhammed scrollò le spalle. — Quella? È una poltrona da dentista, in realtà. Mi piace stare comodo.
Jorgenson annuì, senza alzare gli occhi.
— Uno scanner di qualche genere, eh? — disse. Gettò uno sguardo a Muhammed. — Ho apprezzato molto il suo articolo del mese scorso su Journal of AI Studies. — Credo proprio che sarà interessante esaminare anche quel laboratorio. — Batté altri comandi sui tasti argentei della sua tastiera nera.