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Peter aspettò di sentire il rumore del furgone che se ne andava. Accese il videotelefono, rifletté qualche secondo, lo regolò su «solo testo», e compose il 911. Sulla tastiera batté:

Agente di polizia ferito

216, Melville Avenue, Don Mills urge l’intervento di un’ambulanza

Tutte le chiamate al 911 venivano registrate, ma in quel modo non ci sarebbe stata nessuna impronta vocale a identificarlo. Sandra Philo era priva di sensi, nessun vicino di casa lo aveva visto, e la polizia non avrebbe avuto alcun motivo di perdere tempo con qualcuno che non fosse l’aggressore, che Sandra Philo avrebbe presumibilmente potuto descrivere.

Peter prese il cavo della tastiera, lo staccò dal telefono e con un foulard che trovò all’attaccapanni cancellò le impronte digitali. Sempre con la tastiera in mano tornò in sala da pranzo e si chinò a esaminare Sandra Philo. La giovane donna non sembrava sul punto di riprendere i sensi, ma era viva.

Scosso e tremante lui recuperò la chiave inglese. Mentre usciva dalla porta d’ingresso pulì anche la maniglia, gettò intorno un’occhiata cauta e salì in macchina. Pochi minuti dopo, mentre procedeva lentamente nel traffico, incrociò un’ambulanza con la sirena accesa che andava verso l’abitazione di Sandra Philo.

Peter guidò per chilometri, immerso nei suoi pensieri e senza badare a dove stesse andando. Non vedeva neppure la strada. Alla fine, prima di ammazzarsi o di investire qualcuno, si fermò e chiamò Sarkar con il telefono dell’auto.

— Oh, Peter — esclamò l’amico. — Stavo giusto per chiamarti.

— Cos’è successo?

— Il virus è pronto.

— L’hai già mandato in rete?

— No. Prima voglio collaudarlo.

— Collaudarlo come?

— Ho sempre la prima versione dei tre simulacri sui dischi di backup, all’ufficio di Raheema. — La moglie di Sarkar lavorava a un paio di isolati di distanza dalla Mirror Image. — Per fortuna uso sempre quel magazzino per tenerci tutto il backup del software, nel caso di un incendio qui da noi. La polizia non poteva sapere della sua esistenza. Ma per un test di funzionamento del virus dovrò prima copiare quelle tre versioni in un sistema ben isolato.

Peter annuì. — Grazie a Dio. Comunque c’è un altro motivo per cui voglio passare da te. Ho trovato un oggetto che non riesco a capire cosa sia. Sarò lì fra… — Si guardò attorno e cercò d’identificare la zona in cui era finito. Lawrence East. E quella poco più avanti era Yonge Street. — Sarò lì fra quaranta minuti.

Quando Peter arrivò alla Mirror Image, mostrò all’amico l’oggetto di plastica grigia che sembrava un grosso portafogli bulboso.

— Dove l’hai trovato? — domandò Sarkar.

— L’aveva l’uomo a cui ho sparato.

— Hai sparato a un uomo?

Peter gli raccontò quel che era accaduto. Sarkar ne rimase scosso. — Hai detto di aver chiamato la polizia?

— No… un’ambulanza. Ma senza dubbio è arrivata anche la polizia, subito dopo.

— La donna era viva quando sei uscito? — Sì.

Sarkar indicò l’oggetto che lui aveva in mano. — Dunque questo apparteneva a quell’uomo. Hai idea di cosa potrebbe essere?

— Un’arma di qualche genere, suppongo.

— Non ho mai visto niente di simile — disse Sarkar.

— Quell’uomo l’ha chiamata «lanciaraggi.»

Sarkar restò a bocca aperta. — Subhanallah! — mormorò. — Un lanciaraggi…

— Tu sai cos’è? Sarkar annuì.

— Ho letto qualcosa. C’è un catodo che emette un raggio laser di particelle pesanti. Può uccidere un uomo a una ventina di metri di distanza. — Fece un fischio fra i denti. — Si tratta di un’arma sporca. Nel Nord America è proibita dalla legge. Inoltre è completamente silenziosa; puoi tenerla in tasca e sparare a qualcuno in pubblico senza che nessuno se ne accorga. Gli abiti, o anche le porte di legno, sono del tutto trasparenti al raggio.

— Cristo. — Peter ebbe una smorfia.

— Ma tu hai detto che la donna era viva, no?

— Respirava ancora.

— Se è stata colpita con questa, dovranno amputarle via tutto il tessuto irradiato per avere qualche speranza di salvarla. Ma è più probabile che entro un giorno o due muoia. Se il raggio le avesse colpito il cervello sarebbe morta sul colpo.

— La sua pistola era a pochi passi da lei. Forse stava andando a prenderla quando io ho suonato alla porta. L’ho sentita cadere.

— Allora può darsi che l’uomo non abbia avuto il tempo di mirare. Forse l’ha colpita alla schiena, irradiando il midollo spinale, e il contatto fra il suo cervello e la muscolatura si è interrotto.

— E io ho fracassato il vetro laterale prima che lui finisse il lavoro. Che Dio lo maledica — disse Peter. — Che Dio maledica il mostro che abbiamo creato. Bisogna fermarlo.

Sarkar annuì. — Possiamo farlo. Ho già preparato tutto per il test. Indicò una workstation al centro del laboratorio. — Questa unità è completamente isolata. Ho rimosso tutti i collegamenti con le Reti, il cavo telefonico, il modem, perfino quelli con le batterie anti-blackout. E ho caricato copie dei tre simulacri nel banco dati dell’unità, attraverso il drive esterno. Al momento sono disattive.

— E il virus? — chiese Peter.

— Qui. — Sarkar prese una scheda di memoria PCMCA nera, sottile come una carta di credito. La inserì nella fessura di lettura della workstation.

Peter avvicinò un’altra sedia alla consolle.

— Per eseguire il collaudo nel modo giusto — disse Sarkar, — dovremmo attivare i tre simulacri.

Peter esitò. L’idea di attivare quelle nuove versioni di lui stesso al solo scopo di ucciderle lo metteva a disagio. Ma se era necessario… — Procedi — disse.

Sarkar premette alcuni pulsanti. — Ecco, ora sono vivi.

— Come puoi dirlo?

Lui batté un dito ossuto su alcuni dei dati apparsi a schermo sulla workstation. Erano arabo per Peter, e l’amico se ne rese conto. — Uh, aspetta — disse. — Lascia che te li mostri in un altro aspetto. Batté altri tasti, e tre larghe linee verticali di colore diverso. Per ciascuno dei simulacri c’è una grossa quantità di RAM dove la copia inerte si raddoppia e diviene attiva, e un sensore speciale collegato a un elettroencefalografo, che converte l’attività «mentale» del software in qualcosa di simile alle onde cerebrali.

Peter indicò le linee colorate. Stavano estrudendo e ritirando spine appuntite come ricci spaventati da un cane. — Ehi, guarda questo.

Sarkar annuì. — Panico. Si sono svegliati e non sanno cosa stia succedendo. È come ritrovarsi all’improvviso soli in una stanza buia, sordi, muti, e privi perfino del tatto.

— Poveracci — mormorò Peter.

— Ora inserisco il virus nel sistema — disse Sarkar. — Batté un ordine. — Fatto. È in azione di ricerca.

— Come una malattia — mormorò Peter, con un brivido.

Le tracce di panico sull’EEG proseguirono per alcuni minuti senza variazioni. — Non mi sembra che funzioni — commentò Peter.

— Al virus occorre tempo per individuare gli schemi mentali — disse Sarkar. — I simulacri sono molto grossi. Ci sono più dati in un cervello umano che in una grossa biblioteca. Aspetta solo che… ah, ecco.

All’improvviso la zona centrale dei tre EEG stava emettendo spine più lunghe con violenza. E subito dopo…

Le spine si ritrassero. Rimasero tre linee piatte.

Qualche momento più tardi la linea centrale cominciò ad accorciarsi. Un file sorgente, nel banco dati, si stava consumando come la sua copia RAM.