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L’immagine prese corpo in lui: un globo infuocato del diametro di venti metri, con scintillii bianchi, rossi, dorati, azzurri, lingue di fiamma danzanti come i riccioli di Medusa, una coda di cometa che bruciava per un centinaio di metri, un bagliore, una gloria, un pezzo d’inferno. Il pensiero di ciò che guidava la nave non era che l’ultimo dei suoi problemi.

Dentro di sé preferiva aggrapparsi alle spiegazioni scientifiche, malgrado non fossero più che congetture. Nel sistema stellare multiplo di Epsilon Aurigae, in mezzo al gas e all’energia che riempivano lo spazio circostante, avvenivano cose che nessun laboratorio avrebbe potuto imitare. Un fulmine su un pianeta può forse essere qualcosa di simile, così come lo può essere la formazione in un oceano primordiale di un composto organico semplice nei confronti della vita che alla fine si evolverà da esso. In Epsilon Aurigae le dinamiche idromagnetiche avevano fatto ciò che la chimica aveva fatto sulla Terra. Erano comparsi dei vortici di plasma stabile, erano cresciuti, avevano acquistato complessità e poi, dopo milioni di anni, erano divenuti qualcosa che per forza si doveva definire organismo. Si trattava di un insieme di ioni, nuclei e campi di forza. Metabolizzava gli elettroni, i nucleoni, i raggi X. Manteneva la sua forma per lungo tempo. Si riproduceva. Pensava.

Ma che cosa pensava? I pochi telepati che riuscivano a comunicare con gli aurigei, e che per primi avevano informato il genere umano della loro esistenza, non l’avevano mai spiegato chiaramente. Del resto anche loro erano individui piuttosto strani. Perciò il capitano Szili disse: «Voglio che lei gli comunichi questo».

«Sì, signore». Eloise abbassò il volume del registratore. Lo sguardo le divenne vago. Attraverso le sue orecchie passavano le parole e il suo cervello (fino a che punto era efficiente, come traduttore?) ne trasmetteva il significato all’essere che si muoveva a lunghi balzi a fianco della Raven, servendosi della sua propria energia.

«Stammi a sentire, Lucifero. L’hai già sentito, lo so, ma voglio essere sicuro che tu abbia capito bene. La tua psicologia deve essere molto diversa dalla nostra. Perché hai acconsentito a venire con noi? Non lo so. La tecnica Waggoner ha detto che sei curioso e amante delle avventure. È questa, tutta la verità?

«Non importa. Tra mezz’ora effettueremo il balzo. Penetreremo nella supernova per cinquecento milioni di chilometri. E a questo punto inizia il tuo compito. Tu puoi recarti dove noi non osiamo nemmeno, osservare ciò che noi non possiamo, dirci molto più di quanto potrebbero mai scoprire i nostri strumenti. Ma per prima cosa dobbiamo accertarci di poter restare in orbita attorno alla stella. Anche questo riguarda te. Se dovessimo morire, non potremmo mai più riportarti a casa.

«Perciò, per racchiuderti nel campo di lancio senza smembrare il tuo corpo, dobbiamo disinserire gli schermi. Emergeremo in una zona di radiazioni letali. Tu dovrai allontanarti subito dalla nave, perché sessanta secondi dopo il transito rimetteremo in funzione gli schermi. Poi dovrai esplorare la zona circostante. I rischi da cui guardarsi…». E Szili li elencò. «Questi sono gli unici che possiamo prevedere. Forse ce ne capiteranno altri che non abbiamo previsto. Se ti sembra di vedere una minaccia, ritorna subito, avvisaci e preparati per un altro balzo all’indietro. Hai capito? Ripeti».

Le parole uscirono dalla bocca di Eloise. Una ripetizione corretta; ma quante ne aveva omesse la ragazza?

«Molto bene», Szili esitò. «Continui pure ad ascoltare il suo concerto, se lo desidera. Ma quando mancano dieci minuti all’ora zero si interrompa e stia pronta».

«Sì, signore». Lei non lo guardò in faccia. Sembrava che non stesse guardando nulla in particolare.

I passi del capitano rimbombarono nel corridoio e si persero lontani.

«Perché mi hai ripetuto le solite cose?», domandò Lucifero.

«Ho paura», rispose Eloise.

«Non credo che tu sappia cos’è la paura», disse lei.

«Puoi mostrarmela?… No, non farlo. Sento che fa male. Non voglio che tu provi del male.»

«In ogni caso non posso aver paura, quando la tua mente tiene la mia».

(Un calore la riempì. E c’era allegria, come piccole fiammelle sulla superficie che giocavano al Papà-che-la-prendeva-per-la-ma-no-quando-era-bambina-e-uscivano-in-un-giorno-di-estate-a-raccogliere-i-fiori-di-campo; e forza, e dolcezza, e Bach, e Dio). Lucifero vorticò intorno allo scafo in una curva risplendente. Sulla sua scia danzavano scintille.

«Pensa ancora ai fiori, ti prego.»

Lei tentò.

«Sono come (un’immagine, nitida quanto può produrla un cervello umano, di fontane germoglianti del colore dei raggi gamma nel cuore della luce, luce dovunque). Ma tanto piccoli. Una dolcezza così breve.»

«Non capisco come puoi capire», bisbigliò lei.

«Hai capito tu per me. Io non avevo quel genere di cose da amare, prima che tu venissi.»

«Ma hai tante altre cose. Io cerco di dividerle con te, ma non sono fatta per capire che cosa sia una stella».

«Né io sono fatto per capire che cosa sia un pianeta. Eppure noi possiamo toccarci.»

Le guance di lei bruciavano di nuovo. Il pensiero continuò, facendo da contrappunto alla musica che proseguiva.

«Ecco perché sono venuto, lo sai? Per te. Io sono fuoco e aria. Non avevo mai conosciuto la freschezza dell’acqua, la pazienza della terra, finché tu non me le hai mostrate. Tu sei un raggio di luna su un oceano.»

«No, no», disse lei. «Per favore».

Stupore: «Perché no? La gioia fa male? Non sei abituata a goderne?»

«Io… io credo che tu abbia ragione». Lasciò ricadere la testa all’indietro. «No! Che sia dannata se dovrò sentirmi triste per questo!».

«Perché dovresti? Non abbiamo tutta la realtà in cui vivere, e non è forse piena di soli e di canzoni?»

«Sì. Per te. Insegnami».

«Se tu a tua volta mi insegnerai…». Il pensiero si interruppe. Rimase un contatto, senza parole, come lei immaginava dovesse succedere spesso agli innamorati.

Guardò un po’ seccata il volto color cioccolata di Motilal Mazundar, mentre il fisico si stagliava sull’ingresso. «Che cosa vuole?».

Lui ne fu sorpreso. «Solo vedere se va tutto bene, signorina Waggoner».

Lei si morse il labbro. Lui aveva provato più di tutti gli altri uomini a bordo a essere gentile con lei. «Mi spiace», disse la ragazza. «Non volevo essere scortese con lei. Un po’ di nervosismo».

«Siamo tutti nervosi». Lui sorrise. «Per quanto possa essere eccitante quest’avventura, sarà bello tornare a casa, vero?».

Casa, pensò lei: le quattro mura di un appartamento sopra la strada rumorosa di una città. Libri e televisione. Poteva presentare una relazione al prossimo congresso scientifico, ma nessuno l’avrebbe invitata poi a qualche ricevimento.

Sono così brutta? si domandò. So di non essere particolarmente attraente, ma cerco di essere gentile e interessante. Forse troppo.

«Non per me,» intervenne Lucifero.

«Tu sei diverso», replicò lei.

Mazundar sbatté gli occhi. «Prego?».

«Nulla», rispose la ragazza frettolosamente.

«Ho riflettuto su una cosa», disse Mazundar nel tentativo di ravvivare la conversazione. «Presumibilmente Lucifero andrà molto vicino alla supernova. Potrà ancora mantenere il contatto con lui? L’effetto della dilatazione del tempo non cambierà troppo la frequenza dei suoi pensieri?».

«Che cos’è la dilatazione del tempo?». Si sforzò di ridere. «Non sono un fisico. Solo un’insignificante bibliotecaria che si è ritrovata addosso uno strano talento».

«Non le è stato detto? Be’ pensavo che tutti lo sapessero. Un intenso campo gravitazionale influisce sul tempo come l’alta velocità. In parole semplici i processi si svolgono più lentamente di quanto facciano nello spazio libero. Ecco perché la luce proveniente da una stella molto densa è arrossata. E il nucleo della nostra supernova è quasi pari a quello di tre masse solari. Inoltre ha acquisito una tale densità che la sua attrazione sulla superficie è, ehm, incredibilmente alta. Perciò, secondo il nostro computo orario, ci vorrà un tempo infinito perché essa si contragga fino al raggio di Schwarzschild; ma per un osservatore posto sulla stella il tempo di contrazione sarebbe molto più breve».