«La tua», disse lei, singhiozzando.
«La nostra.»
Gli uomini videro attraverso gli strumenti la morte luminosa che li sfiorava. Si levò un grido di sollievo.
«Torna indietro», gli chiese Eloise.
«Non posso. Sono troppo debole. Ci siamo fusi insieme, io e la nuvola, e stiamo precipitando verso la stella. (Come una mano ferita che si protendesse per confortarla). Non aver paura per me. Man mano che ci avviciniamo trarrò nuova forza dalla sua luce, nuova sostanza dalla nebulosa. Mi ci vorrà un po’ di tempo per uscire fuori a spirale da quell’attrazione. Ma come posso non tornare da te, Eloise? Aspettami. Riposati. Dormi.»
I suoi compagni di viaggio la portarono all’infermeria. Lucifero le inviò sogni di fiori infuocati e gioia e i soli che erano la sua patria.
Ma alla fine si svegliò, gridando. Il medico le dovette somministrare dei forti sedativi.
Lui non sapeva bene cosa significasse affrontare qualcosa di così violento da distorcere addirittura lo spazio e il tempo.
La sua velocità aumentò spaventosamente, secondo i suoi sistemi di misura; dalla Raven, invece, lo videro precipitare per giorni e giorni. Le proprietà della materia erano cambiate. Non poteva più spingere così forte o così in fretta da poter sfuggire.
Radiazione, nuclei strappati, particelle appena nate e distrutte e nate di nuovo, tutto questo gli pioveva e gli urlava dentro. La sua sostanza gli fu strappata via, strato dopo strato. Davanti a lui il nucleo della supernova era un bianco delirio. Man mano che lui si avvicinava, quello si ritraeva, sempre più piccolo, più denso, così luminoso che la luce cessava di avere un significato. Alla fine le forze gravitazionali lo agguantarono in pieno.
«Eloise!», gridò nell’agonia della sua disgregazione. «Oh, Eloise, aiutami!»
La stella lo inghiottì. Divenne infinitamente lungo, infinitamente sottile, e svanì insieme a essa dall’esistenza.
La nave proseguì il suo cammino, esplorando. Si poteva ancora imparare molto.
Il capitano Szili visitò Eloise all’infermeria. Fisicamente si stava riprendendo.
«Vorrei chiamarlo un uomo», dichiarò, attraverso il ronzio dei motori, «ma non è una gran lode. Noi eravamo completamente diversi da lui, eppure è morto per salvarci».
La ragazza lo fissò con occhi troppo asciutti per essere naturali. Lui riuscì appena a sentire la risposta. «Lui è un uomo. Non ha anche lui un’anima immortale?».
«Be’, oh, sì, se lei crede nell’anima, sì, sono d’accordo».
Lei scrollò il capo. «Ma perché non può avere pace?».
Il capitano si guardò intorno alla ricerca del medico e scoprì che erano rimasti soli in quella stretta stanza di metallo. «Che cosa vuole dire?». Le accarezzò la mano. «Lo so, era un suo buon amico. Eppure, la sua deve essere stata una morte pietosa. Rapida, pulita; anche a me piacerebbe morire così».
«Per lui… Sì, immagino di sì. Deve essere così. Ma…». Non riuscì a proseguire il discorso. D’improvviso si coprì le orecchie. «Basta! Per favore!».
Szili cercò di calmarla, poi se ne andò. Nel corridoio incontrò Mazundar. «Come sta?», domandò il fisico.
Il capitano aggrottò la fronte. «Non bene».
«Cosa c’è che non va?».
«Crede di sentirlo».
Mazundar si picchiò il pugno nel palmo della mano. «Speravo che fosse diverso», disse.
Szili incrociò le braccia e attese.
«Lo sente», disse Mazundar. «Evidentemente lo sente».
«Ma è impossibile! È morto!».
«Si ricordi la dilatazione del tempo», replicò Mazundar. «È precipitato dal cielo ed è morto rapidamente, sì. Ma nel tempo della supernova. Che non è il nostro tempo. Per noi il crollo definitivo della stella richiede un numero infinito di anni. E la telepatia non è limitata dalla distanza». Il fisico allungò il passo, allontanandosi dalla cabina. «Sarà sempre con lei».
Titolo originale: Kyrie.
Originariamente apparso in The Fartest Reaches, antologia a cura di Joseph Elder.