«Via!» disse Vickers, e la parola esplose dalla sua bocca come un colpo di cannone. Il suo braccio destro scattò verso l’alto, poi verso il basso, e il fermacarte, roteando nell’aria, piombò violentemente nell’angolo.
Vi fu uno spicinio, e il tintinnare di pezzi metallici che rotolavano sul pavimento.
12
C’erano miriadi di tubicini minuscoli fracassati, e una massa intricata di fili piegati e spezzati, e strani dischi di cristallo scheggiati e frantumati, e il guscio metallico esterno, che aveva contenuto i tubicini e i fili e i dischi e i tanti altri pezzi dell’enigma meccanico che lui non riconosceva.
Vickers tirò più vicino a sé la lampada da tavolo, in modo che la luce potesse rifrangersi sulla manciata di pezzi raccolti dal pavimento, e mosse un dito per smuoverli, impacciato, ascoltando i tintinnii sommessi e musicali che producevano urtandosi.
Non si era trattato di un topo. Era stato qualcosa d’altro… qualcosa che correva furtivamente nella notte, sapendo che lui avrebbe pensato a un topo: qualcosa che aveva spaventato il gatto, il quale sapeva che non era un topo; qualcosa che non si sarebbe lasciato attirare in una trappola.
Un congegno elettronico, forse, a giudicare dall’aspetto dei tubi e dei fili. Vickers smosse di nuovo i frammenti con un dito indagatore, e ne ascoltò i tintinnii.
Una spia elettronica, pensò: una cosa che correva furtiva e che ascoltava, sorvegliandolo a ogni istante, una cosa che immagazzinava quanto udiva e vedeva, in vista di future utilizzazioni, oppure trasmetteva direttamente le informazioni acquisite. Ma a chi? E perché? E forse non era neppure una microspia. Forse era qualcosa d’altro, qualcosa che poteva avere una spiegazione più semplice… o più strana. Se era uno strumento d’ascolto, o visivo, messo lì per spiare lui, non sarebbe riuscito a sorprenderlo. Non ne aveva mai visto uno, prima, eppure da molti mesi udiva il fruscio e lo scalpiccio che aveva attribuito ai topi.
Se fosse stata una microspia, sarebbe stata fatta così bene, così ingegnosamente, che non soltanto avrebbe potuto osservare lui, ma non si sarebbe fatta sorprendere. Per avere valore, infatti, doveva rimanere ignorata. Non poteva permettersi momenti di distrazione. E lui non l’avrebbe vista, a meno che volesse farsi vedere.
A meno che volesse farsi vedere!
Lui era stato seduto alla scrivania, e poi si era alzato, e aveva accostato la sedia, ed era stato in quel momento che aveva udito lo scalpiccio. Se non si fosse messa a correre, lui non l’avrebbe mai vista. E non aveva avuto bisogno di mettersi a correre, in realtà, perché la stanza era stata in ombra; era stata accesa solo la lampada sulla scrivania, e lui aveva voltato le spalle.
Ebbe la gelida certezza che la cosa avesse voluto farsi vedere, avesse voluto farsi intrappolare in un angolo, farsi schiacciare con un fermacarte… che si fosse messa a correre di proposito per attirare la sua attenzione. E quando lui l’aveva vista, non aveva tentato di fuggire.
E certamente, se avesse voluto, avrebbe potuto farlo.
Vickers sedette alla scrivania, e fredde gocce di sudore gli imperlarono la fronte: le sentiva, ma non alzò la mano per asciugarle.
Aveva voluto farsi vedere.
Aveva voluto che lui sapesse.
Non quella cosa, naturalmente, ma chi l’aveva mandata… chiunque o qualsiasi cosa fosse stato a situare quel congegno in casa sua. Per mesi aveva scorso furtivamente, aveva ascoltato e osservato, e adesso era finito il momento dell’osservazione furtiva, era venuto il tempo per qualcos’altro: il tempo per fargli sapere che lui era osservato.
Ma perché? E da chi?
Represse il gelido panico urlante che cresceva dentro di lui, e si sforzò a rimanere seduto.
C’era un indizio, da qualche parte, in quella stessa giornata, pensò. Un indizio c’era, spettava a lui riconoscerlo. In quel giorno era accaduto qualcosa che aveva indotto l’entità misteriosa a decidere che era giunto il momento di fargli sapere.
Ed era questo, che lo riempiva di sgomento, più di ogni altra cosa. Non il semplice fatto di sapere che qualcuno o qualcosa aveva spiato per tutto quel tempo, lui, proprio lui, nella sua casa… non l’implicazione di cose oscure e misteriose che potevano celarsi intorno a lui, indistinte come gli angoli bui delle stanze… c’era tutto questo, naturalmente, ma nulla aveva il potere di sgomentarlo come il fatto che la cosa aveva deciso di mostrarsi.
E proprio quella notte, quella tra tutte le altri notti.
Cercò di ricapitolare gli avvenimenti della giornata, ordinandoli nella mente, come se fossero scritti su di un taccuino. Ed era strano, perché quella giornata era stata piena di enigmi senza risposta, non di un solo avvenimento che avesse dominato gli altri, ma di tante cose intrecciate, come in un ricamo del quale non s’indovinava il disegno, ma s’intuiva solo la trama.
La bambina che era venuta a far colazione con lui.
Il ricordo di una passeggiata che lui aveva fatto vent’anni prima.
La notizia sul giornale, a proposito dei molti mondi.
Le donne sedute dietro di lui, sull’autobus, e quello che avevano detto, e la signora Leslie, e il circolo che stava organizzando.
Crawford e la sua storia di un mondo con le spalle al muro.
Le case a cinquecento dollari a vano.
Il signor Flanders seduto sotto il portico, che diceva che c’era un nuovo fattore il quale teneva lontano il mondo dalla guerra.
Il topo che non era un topo.
Ma tutto questo non era tutto, naturalmente: da qualche parte c’era qualcosa d’altro, qualcosa che lui aveva dimenticato. Senza sapere come faceva a saperlo, sapeva di avere dimenticato qualcosa, un altro fatto tabulato che andava inserito nell’elenco degli avvenimenti di quel giorno.
C’era stato Flanders che aveva dichiarato di interessarsi all’organizzazione dei nuovi negozi di casalinghi, e di essere affascinato dall’enigma dei carboidrati, e di essere convinto che sotto ci fosse qualcosa.
E poi, la sera, sotto il cielo sfolgorante di stelle, seduti nella poltrona a dondolo sotto il portico, lui aveva parlato di patrimoni di conoscenza esistenti tra le stelle, e di un fattore che impediva al mondo di avventurarsi in una guerra, e di un altro fattore che aveva strappato l’Uomo dal vecchio solco circa cento anni prima, e che da allora continuava a farlo galoppare. Aveva formulato ipotesi su tutto questo: oziosamente, aveva detto.
Ma era stata davvero un’ipotesi oziosa?
Oppure Flanders sapeva molte più cose di quante gli aveva detto?
E se era davvero così, allora…
Vickers spinse indietro la sedia, e si alzò.
Guardò l’orologio. Erano quasi le due.
Non importa, pensò. È tempo che io scopra la verità. A costo di irrompere in casa sua e di tirarlo giù dal letto, urlante e in camicia da notte (perché era sicuro che Flanders non portava il pigiama), è ora che io la scopra.
13
Molto prima di arrivare a casa di Flanders, Vickers si accorse che qualcosa non andava. La casa era illuminata, dalla cantina all’abbaino. Degli uomini muniti di lanterne si aggiravano intorno, e c’erano altri gruppi di uomini fermi a parlare, mentre lungo la strada le donne e i bambini stavano sulle verande, vestiti alla meglio, in fretta e furia. Era, pensò Vickers, come se tutta quella gente fosse stata in attesa da un momento all’altro di vedere comparire in fondo alla strada qualche sfilata, come accadeva nei giorni di festa… una strana sfilata alle tre del mattino.
Accanto al cancello erano fermi alcuni uomini, e, quando si avvicinò, vide che tra di essi c’era qualcuno che lui conosceva. Vide Eb, il garagista, e Jor, il disinfestatore, e anche Vic, il padrone del drugstore.