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Era stato un motivo di orgoglio, quell’albero, e la sua ombra pareva mormorare ancora le stesse parole. Come se qualcosa della vita che si era svolta là fosse rimasta invischiata nel tronco dell’albero, e adesso non se ne potesse più andare, e quel luogo fosse impregnato delle sensazioni e delle voci e dei passi di chi ci era stato, che facevano parte di esso come il sole che si levava al mattino e come gli alberi e come le piante che riuscivano a vivere anche in quella terra povera.

Non provò ad aprire la porta, perché desiderava vedere soltanto l’esterno della casa. Dentro ci sarebbero state troppe cose da vedere… i fori dei chiodi nelle pareti, dove erano stati appesi i quadri, e i segni sul pavimento, dove stava la cucina, e la scala con i gradini consumati dai passi dei suoi cari. Se fosse entrato, la casa avrebbe gridato e pianto con i silenzi degli armadi a muro, con il grande, riecheggiante vuoto delle sue stanze abbandonate. E lui non voleva sentirla gridare, né sentirla piangere.

Allora si mosse, e andò a vedere gli altri edifici: e si accorse che quelli, nonostante fossero silenziosi e vuoti, non erano infestati di ricordi come la casa. Il pollaio stava crollando, e il porcile sembrava fatto perché d’inverno il vento potesse attraversarlo sibilando, e trovò una vecchia, consunta legacovoni in fondo al capanno cavernoso delle macchine agricole.

La stalla era tresca e ombrosa, e tra tutti gli edifici era quello che più gli dava la sensazione di essere ritornato a casa. Gli scomparti erano vuoti, ma il fieno pendeva ancora in ciuffi pieni di ragnatele dalle spaccature nel fondo del ripiano, e l’odore era ancora quello che lui ricordava, l’odore per metà muffito, per metà acido degli animali vivi e mansueti.

Salì la rampa del granaio, tirò la barra di legno ed entrò. Sul pavimento, su per le pareti e le travi, dei topi corsero via, squittendo. Un mucchio di sacchi per il grano stava sulla parete divisoria che delimitava il passaggio, e da un piolo pendevano dei finimenti rotti e, in fondo al passaggio, c’era qualcosa che lo indusse a fermarsi di colpo.

Era una trottola, ammaccata e scolorita: ma un tempo era stata vivace e colorata, e quando la posavi sul pavimento e la caricavi premendo il manico, girava e fischiava. L’aveva ricevuta in regalo per Natale, rammentava, ed era stato uno dei suoi giocattoli preferiti.

La raccolse, e strinse le dita intorno al metallo ammaccato, con un’improvvisa tenerezza, e si chiese come fosse finita lì. Era una parte del suo passato che ritornava… un oggetto morto e inutile per chiunque al mondo, tranne che per il bambino cui era appartenuto un tempo.

Era stata una trottola a strisce, e i colori correvano in fasce a spirale quando la facevi girare, e a un certo punto, Vickers lo ricordava, ogni striscia saliva a spirale, e un’altra striscia saliva e spariva, e poi un’altra ancora.

Si poteva restare lì incantati per ore e ore, a guardare le strsce che salivano e sparivano, a cercare di capire dove andavano. Perché, pensava una mente infantile, dovevano andare pure da qualche parte. Non potevano essere lì e poi, un secondo dopo, essere già sparite. Dovevano finire in qualche posto.

E finivano davvero in qualche posto!

Ora lo ricordava.

Ricordò tutto, con la trottola stretta tra le mani e gli anni che cadevano e si dileguavano, per riportarlo a un giorno della sua infanzia.

Potevi andare insieme alle strisce, potevi andare dove finivano loro, nella terra in cui erano fuggite, se eri molto giovane e credevi con forza sufficiente nel meraviglioso e in quelle cose che compongono i sogni e che esistono appena oltre gli angoli della propria vista, e che basta desiderare di raggiungere con forza sufficiente per essere là…

Era una specie di terra incantata, benché sembrasse molto più reale di quanto dovrebbe essere una terra fatata. C’era un sentiero che pareva fatto di vetro, e c’erano uccellini e fiori e alberi e farfalle, e lui aveva colto uno dei fiori e l’aveva tenuto in mano mentre proseguiva lungo il sentiero. Aveva visto una casetta nascosta in un bosco, e quando l’aveva vista si era spaventato un poco, ed era ritornato indietro e all’improvviso si era trovato di nuovo a casa, con la trottola ferma sul pavimento davanti a lui e il fiore ancora stretto in mano.

Era andato a dirlo a sua madre, allora, e lei gli aveva strappato il fiore, come se ne avesse paura. Ed era comprensibile che ne avesse paura, perché era inverno.

Quella sera suo padre gli aveva fatto molte domande, e aveva saputo della trottola, e il giorno dopo, ricordava, quando lui l’aveva cercata non era più riuscito a trovarla, Aveva pianto per giorni interi, di nascosto, naturalmente.

E adesso eccola lì, vecchia e ammaccata, senza più traccia dei suoi colori originali, ma era la stessa; di questo ne era sicuro.

Lasciò il granaio, portando con sé la trottola ammaccata, sottraendola all’odiata insicurezza in cui era rimasta per tanto tempo.

L’oblio, si disse: ma si trattava di qualcosa di più… una specie di blocco mentale che gli aveva fatto dimenticare la trottola e il viaggio nella terra incantata. Per tutti quegli anni non l’aveva ricordato, non aveva mai neppure sospettato che nella sua mente fosse annidata la memoria di quell’episodio. Ma adesso aveva recuperato la trottola e aveva recuperato anche quel giorno… il giorno in cui aveva seguito le strisce vorticanti della trottola e aveva visitato la terra incantata.

20

Disse a se stesso, con decisione, che non si sarebbe fermato alla casa dei Preston. Sarebbe passato oltre, non troppo in fretta, naturalmente, e le avrebbe dato un’occhiata, ma non si sarebbe fermato. Perché adesso lui fuggiva, come aveva saputo che sarebbe fuggito. Aveva scrutato il guscio vuoto dell’infanzia e aveva trovato un oggetto dell’infanzia, e non avrebbe più guardato le ossa inaridite della sua giovinezza.

Non si sarebbe fermato alla casa dei Preston. Avrebbe solo rallentato e guardato, poi avrebbe accelerato, lasciando chilometri e chilometri dietro di sé.

No, non si sarebbe fermato, si disse.

Ma naturalmente si fermò.

Restò seduto in macchina e guardò la casa e ricordò che un tempo era stata così superba, era stata la dimora di una famiglia altrettanto superba… troppo, per lasciare che una sua ragazza sposasse un ragazzo di campagna, con una fattoria tutta granoturco stento e argilla gialla.

Ma ora la casa non era più superba. Le imposte erano chiuse, e sì, qualcuno le aveva inchiodate con lunghe assi, serrando gli occhi della casa, e la vernice si scrostava, cadeva a scaglie dalle colonne maestose della facciata: e qualcuno aveva scagliato un sasso, rompendo uno dei vetri della rosta sopra la porta principale. La staccionata traballava e il giardino era invaso dalle erbacce, e il sentiero di mattoni che andava dal cancello al portico era scomparso sotto l’erba strisciante.

Poi scese dalla macchina, e salì dal cancello sghembo, su, fino al portico.

Salì i gradini, camminò sotto il portico e vide che le tavole del marciapiedi erano marcite.

Si fermò dove loro due si erano fermati, e avevano compreso per la prima volta che il loro amore sarebbe durato in eterno, e cercò di recuperare quell’attimo del passato, ma il passato non c’era più. Era trascorso troppo tempo, e c’era stato troppo sole e troppo vento, e quel momento se ne era andato, sebbene ci fosse ancora il suo ricordo doloroso. Cercò di ricordare come gli erano apparsi, dal portico, i prati e i campi e il cortile, con il bianco chiaro di luna che si infrangeva sul candore delle colonne, e le rose che riempivano l’aria del sole distillato del loro profumo. Conosceva queste cose, ma non poteva più sentirle né vederle.