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«Un esperimento,» disse Vickers.

«Un esperimento?»

«Un esercizio di occultismo.»

«Ma cosa stai dicendo? Non ne sai niente, tu, dell’occulto. Sei mistico più o meno quanto un pezzo di legno.»

«Lo so,» disse Vickers.

«Ti prego,» insistette Ann, «che cosa hai intenzione di fare?»

«Appena avrò finito di parlare con te,» disse Vickers, «mi metterò a verniciare.»

«Una casa?»

«No, una trottola.»

«Una che

«Una trottola. Un giocattolo per bambini. La si mette sul pavimento e la si fa girare.»

«Stammi bene a sentire,» fece lei, «piantala con questi scherzetti e vieni a casa da Ann.»

«Dopo l’esperimento,» disse Vickers.

«Parlamene, Jay.»

«Voglio cercare di andare nella terra incantata.»

«Smettila di dire scemenze.»

«L’ho già fatto, una volta. Due volte, anzi.»

«Ascoltami, Jay, è una faccenda seria. Crawford ha paura, e ho paura anch’io. E poi c’è quella storia del linciaggio… non ne sapevo niente, ma non mi sembra una bella storia.»

«Mandami il vaglia telegrafico,» disse Vickers.

«Subito.»

«Ci vediamo tra un paio di giorni.»

«Chiamami,» disse lei. «Chiamami domani.»

«Ti chiamerò.»

«E… Jay, stai attento. Non so che cosa stai combinando, ma stai attento.»

«Starò attento,» disse Vickers.

23

Raddrizzò il manico che serviva a far girare la trottola e lucidò il metallo prima di tracciare le spirali con una matita e poi si fece prestare un oliatore per macchine da cucire e oliò la spirale del manico, in modo che scorresse facilmente. E poi cominciò a dipingere.

Non era molto esperto in quel genere di lavoro, ma si impegnò con accanimento. Dipinse scrupolosamente, prima con il rosso, poi con il verde, e infine con il giallo, augurandosi che i colori andassero bene, perché non riusciva a ricordare esattamente come fossero. Comunque, probabilmente, non avrebbe avuto molta importanza quali erano i colori, purché fossero molto vivi e disposti a spirale. Se il passaggio nel regno delle fate fosse stato prodotto da una combinazione di colori, tutti i bambini che avevano giocato con le trottole sarebbero finiti là, e lui, invece, non ne aveva mai saputo niente. No, non dovevano essere i colori. Ciononostante, cercò di fare ugualmente un buon lavoro.

Forse, era importante che lui fosse convinto di svolgere un buon lavoro.

Si macchiò di tinta le mani e i vestiti e la sedia su cui aveva posato la trottola e versò un barattolo di rosso sul pavimento, ma lo raccolse in fretta, con una specie di piroetta che rischiò di rovesciare anche tutto il resto del suo armamentario; ma arrivò in tempo, e così sul tappeto finì pochissima vernice.

Poi terminò, e si fermò a esaminare quello che aveva ottenuto.

Adesso era pronto: pronto a vedere cos’avrebbe scoperto facendo girare la trottola. Forse la terra incantata, forse niente. Molto più probabilmente, non avrebbe scoperto niente. Perché doveva esserci ben altro che la trottola che girava… la mente e la fiducia e la pura semplicità di un bambino. E tutte quelle cose erano state molto belle, finché erano durate, ma adesso lui non le possedeva più.

Uscì, chiuse a chiave la porta alle sue spalle, e scese la scala. La cittadina e l’albergo erano troppo piccoli per avere ascensori. Comunque, non era una cittadina piccola come il villaggio della sua infanzia, il minuscolo villaggio dove stavano ancora seduti sulla vecchia panca davanti all’emporio, e sulle casse rovesciate, e ti guardavano di sottecchi e ti rivolgevano domande curiose e impudenti, per ricavarne l’essenziale, e poi tesserne lunghi pettegolezzi, che avrebbero occupato le lunghe serate e le giornate d’inverno e le ore pigre che scorrevano, lentamente, sempre lentamente, come il volgere delle stagioni.

Ridacchiò, pensando a quello che avrebbero detto quando al villaggio sarebbe arrivata la notizia che lui era fuggito da Cliffwood per sottrarsi a un linciaggio.

Perché la notizia sarebbe arrivata. Ann non ne sapeva niente, ed Eb non aveva detto niente, e la notizia non era apparsa sui giornali, ma presto o tardi qualcosa sarebbe filtrato. E allora tutti avrebbero saputo che il ’famoso’ scrittore Jay Vickers era sfuggito per miracolo a un linciaggio, ed era accusato di avere ucciso un uomo. Un delitto fosco e misterioso, con risvolti indefinibili.

E allora la notizia si sarebbe messa in movimento, e sarebbe arrivata anche al villaggio. Lentamente, come accadeva sempre, ma sarebbe arrivata.

E loro avrebbero saputo.

Gli pareva già di sentirli.

«Un ipocrita,» avrebbero detto. «È sempre stato un ipocrita, e un buono a niente. Suo padre e sua madre erano brava gente, però. È strano, come qualche volta un figlio butta male, anche se suo padre e sua madre erano persone come si deve.»

E avrebbero scosso il capo, solennemente.

Attraversò l’atrio, uscì sulla strada. Il vaglia telegrafico era arrivato, tempestivo, e lui si fermò per qualche istante a cambiarlo.

Era stranamente piacevole, sapere di avere qualcosa in tasca.

Raggiunse un ristorante aperto, e la cameriera lo salutò, e gli disse:

«Bella serata, vero?»

«Sì,» fece lui.

«Vuole qualcosa, con il caffè?»

«No,» disse Vickers. «Solo il caffè.» Adesso il denaro l’aveva, grazie alla celerità di Ann, ma si era accorto, senza stupirsene, che non aveva appetito, non se la sentiva di mangiare nulla.

La cameriera tornò al banco, pulì qualche immaginaria macchiolina con lo strofinaccio che teneva in mano.

Una trottola, pensò Vickers. E che c’entrava? L’avrebbe portata a casa, l’avrebbe fatta girare, e avrebbe saputo, una volta per tutte, se esisteva veramente una terra incantata… no, non questo, per l’esattezza. Avrebbe saputo se lui poteva ritornare nella terra incantata.

Che fosse esistita, l’aveva sempre saputo. Ne era stato sicuro, nel profondo della propria mente, anche quando gli era sembrato di dimenticarlo. Fino a quando una bambina di nome Jane non gli aveva chiesto se nella sua vita non ci fosse mai stata una ragazza da sposare.

E tutta la catena era cominciata da lì.

La terra incantata, il regno delle fate, e quella sottile differenza che faceva di lui qualcosa di diverso, qualcosa che gli altri non consideravano allo stesso modo con cui consideravano gli altri uomini. Uno che sfuggiva al normale istinto gregario degli esseri umani, e che aveva dovuto relegare anche questo nelle profondità della propria mente, per non sentirsi troppo profondamente ferito da qualcosa che doveva accettare e subire senza comprendere.

La terra incantata, il regno delle fate, e un uomo che era sottilmente diverso dagli altri, senza saperlo, anche se gli altri lo sapevano, chissà come.

E la casa. Che cosa c’entrava la casa?

Oppure la trottola e la casa c’entravano davvero?

E se non era così, perché Horton Flanders gli aveva scritto: «Torni a passeggiare per i sentieri che percorreva da ragazzo. Forse troverà una cosa che le occorre… o qualcosa che ha perduto.» Forse non erano queste le parole che aveva usato. Chiuse gli occhi, e tentò di concentrarsi, perché gli sarebbe piaciuto ricordare le parole esatte di Flanders, ma non le rammentava più.

Così lui era tornato e aveva trovato una trottola dimenticata, e soprattutto aveva ricordato la terra incantata. E perché, si chiese, in tutto il tempo trascorso da quando lui aveva otto anni, non aveva mai ricordato quella passeggiata nella terra incantata?

Gli aveva fatto un’impressione profonda, a quel tempo, non c’era dubbio, perché non appena l’aveva ricordata gli era parsa nitida e chiara come se fosse appena avvenuta.

Ma qualcosa l’aveva spinto a dimenticarla: forse un blocco mentale. Qualcosa gliel’aveva fatta dimenticare. E qualcosa gli aveva fatto rifiutare, istintivamente, la proposta di Crawford.