Poi un giorno, poco prima del tramonto, Vickers giunse in cima ad un’altura, e vide il terreno che scendeva, davanti a lui, incurvandosi verso il nastro lontano di un fiume che gli sembrò di riconoscere.
Ma non fu il fiume ad attirare la sua attenzione; fu il bagliore del sole calante sul metallo, su una larga area metallica, laggiù lontano, lungo il pendio.
Levò la mano per ripararsi gli occhi dalla luce del sole e cercò di distinguere che cosa fosse; ma era troppo lontano, e brillava troppo.
Mentre scendeva il pendio, senza sapere se doveva rallegrarsi o impaurirsi, Vickers non perdeva d’occhio lo scintillare del metallo lontano. Qualche volta lo perdeva di vista, quando si addentrava in una depressione, ma poi lo ritrovava sempre quando arrivava sul dosso, e quindi aveva la certezza che ci fosse realmente.
Finalmente riuscì a capire che quanto vedeva era un complesso di costruzioni… edifici metallici che scintillavano al sole. E poi vide strane sagome che andavano e venivano nell’aria, sopra quelle costruzioni, e intorno c’era un fremito di vita e di attività.
Ma non era una città, non era un paese. Innanzitutto, era troppo metallico. E poi, non c’erano strade che vi arrivassero.
Via via che si avvicinava, Vickers distinse sempre meglio i dettagli: e alla fine, quando fu solo a due o tre chilometri di distanza, si fermò a osservare e capì che cos’era.
Non era una città: era una fabbrica, una fabbrica gigantesca, estesissima, e vi arrivavano in continuazione le strane cose che probabilmente erano aerei, ma che avevano piuttosto l’aria di cassoni volanti. Quasi tutte venivano dal nord e dall’ovest, e volavano a bassa quota, non troppo velocemente, e scendevano per atterrare dietro un gruppo di edifici che si trovavano tra Vickers ed il campo d’atterraggio.
E gli esseri che si muovevano tra gli edifici non erano uomini… O almeno non sembravano uomini, bensì qualcosa d’altro, cose metalliche che balenavano negli ultimi raggi del sole.
Tutto intorno alle costruzioni, montati su grandi torri, c’erano dischi concavi dal diametro di alcuni metri, tutti rivolti verso il sole, e brillavano come se avessero dentro il fuoco.
Vickers si avviò lentamente verso gli edifici e quando fu più vicino si rese conto, per la prima volta, della loro enormità. Coprivano ettari ed ettari, torreggiavano alti parecchi piani, e le cose che correvano tra loro, impegnate a sbrigare molte e misteriose mansioni, non erano uomini, non somigliavano neppure agli uomini, erano macchine autosufficienti.
Vickers qualcuna riusciva a identificarla, ma in maggioranza gli riuscivano irriconoscibili. Vide una macchina da trasporto che passava correndo con un carico di legname stretto nel ventre, e una grande gru avanzò, a cinquanta chilometri orari, pesantemente, facendo dondolare le fauci d’acciaio. Ma ce n’erano altre che sembravano incubi meccanici, e tutte si muovevano come se fossero spinte da una terribile fretta.
Trovò una strada o, se non era una strada, uno spazio aperto tra due edifici, e s’incamminò, tenendosi rasente a una costruzione, perché procedere al centro poteva voler dire giocarsi la vita, dato che le macchine avrebbero potuto travolgerlo.
Giunse davanti a un’apertura dell’edificio: una rampa scendeva fino alla strada, e Vickers salì, guardingo, si affacciò sull’interno. Dentro era illuminato, anche se non riusciva a vedere da dove proveniva la luce: e vide file e file di macchinari in attività. Ma non c’era rumore… e questo, comprese, era ciò che più lo sconvolgeva. Era una fabbrica, e non c’era rumore. C’era un silenzio assoluto, rotto soltanto dal suono del metallo sulla terra, quando le macchine autosufficienti sfrecciavano lungo la strada.
Vickers ridiscese la rampa e continuò a percorrere la strada, tenendosi rasente all’edificio, e uscì sul limitare dell’aeroporto, dove i cassoni volanti atterravano e decollavano.
Guardò le macchine scendere e depositare il carico, grandi cataste di legname appena segato, che subito veniva afferrato dai trasporti e avviato in tutte le direzioni, grandi mucchi di minerale grezzo, molto probabilmente ferro, scaricato nelle fauci di altre macchine che a Vickers sembravano simili ad altrettanti pellicani.
Appena il cassone aveva finito di scaricare ripartiva… decollava senza far rumore, come se un vento misterioso l’avesse afferrato e sollevato nell’aria.
Le macchine volanti arrivavano a fiumi interminabili, deponendo i carichi che venivano ritirati e portati via quasi immediatamente. Niente veniva lasciato lì ammucchiato. Prima che il cassone si risollevasse nell’aria, il suo carico già veniva trasportato altrove.
Come uomini, pensò Vickers… queste macchine si comportavano proprio come uomini. Il funzionamento non era automatico, perché per esserlo, ogni operazione avrebbe dovuto venire eseguita in un certo punto e a un certo momento… e i cassoni non atterravano sempre nello stesso posto, e i loro arrivi non avvenivano a intervalli di tempo regolari. Ma ogni volta che un apparecchio atterrava, una macchina trasportatrice si trovava sempre lì accanto, per occuparsi del carico.
Come esseri intelligenti, pensò Vickers, e in queir istante comprese che lo erano veramente. Erano robot, capì: e ognuno era fatto in modo da svolgere un compito particolare. Non erano i robot antropomorfi che la gente poteva immaginare, bensì macchine pratiche, dotate d’intelligenza e di volontà.
Il sole era tramontato e Vickers, fermo all’angolo dell’edificio, alzò gli occhi verso le torri rivolte verso il sole. I dischi che le sormontavano, vide, stavano girandosi lentamente verso oriente, in modo da trovarsi rivolti verso il sole quando sarebbe sorto l’indomani mattina.
Energia solare, pensò Vickers… e quando aveva sentito parlare dell’energia solare? Ma a proposito delle case dei mutanti! Il piccolo venditore tutto azzimato aveva spiegato a lui e ad Ann che, quando si disponeva d’una centrale solare, si poteva fare a meno di rivolgersi all’azienda elettrica.
E anche lì c’era l’energia solare. Anche lì c’erano macchine senza attrito che funzionavano senza emettere il minimo rumore. Come l’auto Aeterna, non si sarebbero usurate: sarebbero durate per parecchie generazioni.
Le macchine non gli badavano. Era come se non lo vedessero, non sospettassero la sua presenza. Neppure una indugiò mentre gli passava accanto precipitosamente, neppure una si spostò per girargli al largo. Nessuna aveva compiuto un movimento minaccioso verso di lui.
Al tramontare del sole, l’area si illuminò, ma ancora una volta, Vickers non seppe distinguere la sorgente luminosa. L’oscurità non arrestò il lavoro. I cassoni volanti, grandi e angolosi, continuavano ad arrivare, scaricavano e riprendevano il volo. Le macchine da trasporto continuavano a correre. Le lunghe file di macchinari, dentro gli edifici, proseguivano il loro lavoro silenzioso.
I cassoni volanti, si chiese, erano robot anche quelli? E la risposta sembrava sì: probabilmente lo erano.
Vickers continuò ad aggirarsi, tenendosi rasente all’edificio per non farsi travolgere.
Trovò una possente piattaforma da carico, dove le casse, portate dalle macchine, venivano accatastate: altre macchine le caricavano sugli apparecchi volanti che li portavano a destinazione, chissà dove, in una fiumana initerrotta. Vickers si avvicinò cautamente, salì sulla piattaforma, guardò attentamente alcune di quelle casse, cercando di capire cosa contenessero: ma le uniche indicazioni erano lettere e cifre stampigliate. Pensò di forzarne qualcuna, ma non aveva gli utensili per farlo, e aveva un po’ paura di azzardarsi a farlo perché, sebbene le macchine continuassero a non badare a lui, avrebbero potuto intervenire in modo disastroso se avesse tentato di interferire nella loro attività.
Alcune ore dopo, uscì dalla parte opposta dell’ampia zona industriale e se ne allontanò, e poi si voltò indietro e la guardò, e la vide risplendere di quella strana luce, ne captò l’attività operosa.