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«Lei è un mutante,» aveva detto Crawford, «un mutante non perfettamente sviluppato. È uno di loro.» Perché Crawford possedeva una macchina abilissima che poteva frugare nella mente e dire al suo padrone cosa c’era in quella mente, quali differenze aveva rispetto alla normale mente di un essere umano, e non appena si accorgeva della differenza pronunciava la sua sentenza, e per quanto l’oggetto della sua analisi non se ne rendesse conto, gli applicava il marchio della differenza, lo bollava diverso dal resto del genere umano, e allora Crawford diceva: questo è un mutante potenziale, cerchiamo altri come lui.

Ma quella macchina in ultima analisi non era così abile, non era così intelligente, anzi, era molto stupida, perché non sapeva neppure distinguere un uomo vero da uno falso, l’originale da un simulacro.

Non un mutante, ma il fattorino di un mutante. Neppure un uomo, ma una copia artificiale.

Quanti altri, si chiese, potevano essere come lui? Quanti altri suoi simili si aggiravano sulla Terra, svolgendo i compiti assegnati loro dal padrone mutante? Quanti come lui venivano seguiti e spiati dagli uomini di Crawford, i quali non sospettavano di non seguire e spiare i temuti mutanti, bensì delle cose che i mutanti avevano fabbricato? Questo, pensò Vickers, era il vero metro per misurare la differenza tra l’uomo normale e il mutante… l’uomo normale poteva scambiare per il mutante quello che in realtà era soltanto il suo spaventapasseri.

I mutanti fabbricavano un uomo e lo lasciavano andare, libero apparentemente, e lo sorvegliavano, gli permettevano di svilupparsi… con la sua vita, i suoi pensieri, i suoi ricordi, i suoi sogni, anche la sua arte, se era stato stabilito che l’androide avesse abilità in un’arte… e lo facevano spiare da un minuscolo meccanismo, un topolino meccanico che poteva venire sbriciolato con un fermacarte.

E a tempo debito gli davano uno scossone… perché? Montavano la testa ai suoi compaesani, perché fuggisse nel timore di venire linciato; mettevano da qualche parte, perché lui lo trovasse, un giocattolo della sua infanzia, e stavano a vedere se quel giocattolo poteva fare scattare certe associazioni d’idee: sistemavano le cose in modo che viaggiasse con un’auto Aeterna, sapendo che guidare una di quelle macchine significava correre il rischio di venire fatto a pezzi dalla folla inferocita. Un rischio al quale i veri mutanti non si esponevano, perché non appena l’allarme veniva diffuso, loro sparivano, e né gli uomini di Crawford né le folle inferocite sarebbero mai stati in grado di seguirli là dove andavano.

E dopo che avevano dato diversi scossoni a un androide… allora, che ne era di lui?

Che ne era degli androidi, dopo che erano stati usati per lo scopo per cui erano stati fabbricati?

Aveva promesso a Crawford che, non appena avesse saputo che cosa stava succedendo, lo avrebbe informato. E adesso sapeva che cosa stava succedendo, e a Crawford la notizia avrebbe potuto interessare molto.

E c’era anche un’altra cosa… qualcosa che gli assillava il cervello, che ribolliva, tentando di affiorare. Qualcosa che lui sapeva, ma che non riusciva a ricordare.

Erano tante le cose che lui non riusciva a ricordare, e mano a mano che la pressione aumentava, gli venivano alla mente, e lui si stupiva di non averle mai sapute. E non c’era da meravigliarsi, perché chi poteva dire come venisse programmata la mente di un androide, a seconda degli usi ai quali i suoi padroni intendevano destinarlo?

Vickers si avviò tra i boschi, tra gli alberi massicci, sul profondo strato di terriccio morbido e sullo spesso tappeto di foglie morte che odoravano di vita, tra i muschi e i fiori e quello strano silenzio, pieno di spensieratezza e di serenità.

Doveva trovare Ann Carter. Doveva rivelarle ciò che stava accadendo e, insieme, in qualche modo loro due avrebbero cercato di opporsi.

Perché era necessario opporsi a qualcosa che modificava il proprio destino senza che ci si potesse fare niente. Perché era necessario opporsi quando si scopriva di essere un androide, l’ultima delle pedine in un gioco che era difficile capire, nel quale era facile smarrirsi.

Si fermò accanto a una grande quercia secolare e alzò gli occhi verso il colore intenso delle fronde e cercò di schiarirsi la mente, di liberarla dal caos nel quale era piombata, per ricominciare a pensare con chiarezza, con quella lucidità che lo sapeva, gli era necessario trovare per sopravvivere non tanto fisicamente, quanto mentalmente, alle scosse alle quali veniva sottoposto.

Androide.

Androide.

Era una parola che ronzava nella mente.

Androide.

In quel turbine di pensieri confusi, di ricordi che affioravano nei momenti meno attesi, di altre cose che si rifugiavano in angoli oscuri dove non riusciva a giungere il barlume di luce della conoscenza, di rivelazioni improvvise e di conclusioni e di supposizioni, c’erano due cose più importanti di tutte le altre:

Lui doveva ritornare alla Terra madre.

E doveva ritrovare Ann Carter.

35

Vickers non vide l’uomo fino a quando quello gli rivolse la parola.

«Buongiorno, forestiero,» disse qualcuno, e Vickers si girò di scatto. L’uomo era lì, a pochi passi da lui, alto, forte, vestito come un bracciante, ma sulla testa portava una gaio berretto a punta, con una piuma colorata.

Benché il suo abbigliamento fosse così semplice, rozzo, l’uomo non aveva l’aspetto del contadino, ma piuttosto una gaia autosufficienza che ricordò a Vickers qualcuno di cui aveva letto la storia: cercò di pensare chi gli ricordava, ma non riuscì, sul momento, a trovare l’identificazione.

L’uomo portava sulle spalle, fissata a una cinghia, una faretra piena di frecce, e in mano teneva un arco. Due giovani conigli gli penzolavano privi di vita dalla cintura, e il sangue aveva macchiato un po’ i calzoni. C’era qualcosa del cacciatore, in quella figura, c’era qualcosa che parlava di ricordi di un tempo scomparso, di letture dell’infanzia e di personaggi immersi in un ambiente simile a quello nel quale si ritrovava. Era strano che lui non ricordasse.

«Buongiorno,» fece Vickers, laconico.

Non gli piaceva, l’apparizione di quell’uomo che pareva schizzato fuori dal nulla, quando lui aveva creduto di essere solo con i propri pensieri e con la propria mente e con il peso delle rivelazioni che aveva avuto.

Provò un senso d’irritazione, per un momento, qualcosa che si associava alla sua incapacità d’identificare lo sfuggente ricordo del personaggio al quale l’uomo assomigliava, e, per metà, alla sua comparsa improvvisa in quel luogo di silenzi.

«Lei è un altro,» disse l’uomo.

«Un altro?»

L’uomo rise, allegramente, una risata che fece vibrare il silenzio di quel luogo.

«Ne troviamo uno ogni tanto,» spiegò. «Qualcuno che è passato alla cieca e arriva qui e si guarda intorno e non sa dove si trova. Mi sono chiesto spesso che fine facevano, prima che noi ci stabilissimo qui, e che fine fanno, quando escono fuori molto lontano dai luoghi abitati.»

«Non so di cosa stia parlando.»

«Un’altra cosa che lei non sa,» disse l’uomo, «è dove si trova.»

«Ho una teoria in proposito,» disse Vickers. «Questa è una seconda Terra.»

L’uomo ridacchiò.

«C’è andato molto vicino,» disse. «È meglio della maggioranza degli altri. Quelli vanno in giro alla cieca, a bocca aperta, e non ci credono, e quando noi diciamo loro che questa è la Terra numero Due se ne stanno a guardarci con l’espressione di chi si trova di fronte a un pazzo, o ha paura di essere preso in giro.»

«Esatto,» disse Vickers. «La Terra numero Due, vero? E la Terra numero Tre?»