Vickers si fermò davanti alla vetrina, e guardò quello che c’era esposto. Sul piano era stato messo uno strano velluto nero, e sul velluto stavano tre oggetti: un accendino, una lametta da rasoio e una lampadina elettrica. Nient’altro.
Soltanto quei tre oggetti. Non c’erano cartellini, né scritte pubblicitarie, né prezzo. Non erano necessari. Chiunque vedesse la vetrina, pensò Vickers, avrebbe riconosciuto gli oggetti esposti, anche se il negozio non vendeva soltanto quelli. Certamente c’erano almeno un paio di dozzine di altri tipi… ciascuno eccezionale ed efficiente come i tre che stavano sul velluto nero.
Si sentì un ticchettio lungo il marciapiedi, e Vickers si voltò, quando il suono si avvicinò a lui. Era il suo vicino Horton Flanders, che faceva la solita passeggiata mattutina, con quei suoi abiti un po’ logori ma spazzolati meticolosamente, e l’elegante bastone di malacca. Nessun altro, si disse Vickers, avrebbe avuto il coraggio di portare un bastone da passeggio per le vie di Cliffwood.
Il signor Flanders lo salutò con il bastone, e gli si avvicinò, per guardare la vetrina.
«Dunque si espandono,» disse.
«A quanto pare,» riconobbe Vickers.
«Una compagnia davvero bizzarra,» disse il signor Flanders. «Forse saprà, anche se credo che non lo sappia, che questa società mi interessa moltissimo, e ne ho seguito l’evolversi con grande attenzione. Per pura curiosità, vede. Potrei anche aggiungere, naturalmente, che la mia curiosità si estende a un sorprendente numero di cose, molto diverse tra loro.»
«Non l’avevo notato,» disse Vickers.
«Oh, ma sì,» disse il signor Flanders. «Moltissime cose, davvero. I carboidrati, per esempio. Una faccenda veramente sconcertante, non pare anche a lei, signor Vickers?»
«Be’, confesso di non averci fatto molto caso. Ho avuto tanto da fare che, purtroppo…»
«C’è sotto qualcosa,» disse il signor Flanders. «Glielo assicuro io.»
L’autobus arrivò, li superò e frenò, fermadosi all’angolo del drugstore.
«Mi dispiace molto, ma devo andare, signor Flanders,» disse Vickers. «Vado in città. Se riesco a tornare stasera, perché non mi viene a trovare?»
«Oh, verrò senz’altro,» rispose il signor Flanders. «Lo faccio quasi sempre.»
4
Prima c’era stata la lametta, la lametta da rasoio che non si consumava mai. E poi l’accendino che non sbagliava mai un colpo, che non aveva bisogno di pietrine né di ricarica. E poi la lampadina che avrebbe continuato a funzionare per sempre, a meno che non fosse capitato un incidente. E adesso toccava alle automobili Aeterna.
E in quello stesso quadro, da qualche parte, doveva esserci un posto anche per i carboidrati sintetici.
C’è sotto qualcosa, aveva detto il signor Flanders, davanti al negozio del vecchio Hans.
Vickers andò a sedersi accanto al finestrino, in fondo all’autobus, e cercò di rimettere ordine nei suoi pensieri.
Doveva esserci un collegamento… lamette da rasoio, accendini, lampade, carboidrati sintetici e adesso le automobili Aeterna. Da qualche parte doveva esistere un denominatore comune, per spiegare come mai si trattava proprio di quei cinque oggetti e non di altri cinque, per esempio tapparelle e pogo e yo-yo e aerei e dentifricio. Con le lamette un uomo si faceva la barba, con le lampadine si faceva la luce, con l’accendino si accendeva le sigarette e i carboidrati sintetici avevano risolto almeno una crisi internazionale e avevano risparmiato a parecchi milioni di persone la fame e la guerra.
C’era sotto qualcosa, aveva detto Flanders, lì fermo con quei suoi abiti lindi ma logori e con quel ridicolo bastone stretto in pugno, anche se, a pensarci bene, il bastone non era così ridicolo quando l’aveva in mano il signor Flanders.
L’automobile Aeterna avrebbe funzionato per sempre, e non aveva bisogno di olio, e quando morivi la lasciavi a tuo figlio, e quando lui moriva la lasciava a suo figlio, e se il tuo trisnonno comprava una di quelle macchine e tu eri il primogenito del primogenito del suo primogenito sarebbe spettata a te. Una sola macchina sarebbe durata parecchie generazioni.
Ma non si trattava soltanto di questo. In un anno o due, tutte le fabbriche di automobili avrebbero dovuto chiudere; avrebbero chiuso quasi tutti i garage e le officine meccaniche; sarebbe stato un brutto colpo per l’industria metalmeccanica, e per l’industria siderurgica, e per quelle del vetro, e dei tessuti, e per un’altra dozzina di altre industrie. Una catena. Tutte le cose collegate, una qui, una lì, e bastava rimuovere un anello, o aggiungerne uno tutto scintillante e cromato e splendente, e sarebbe cambiata la disposizione, e chissà cosa ne sarebbe stato del mondo.
C’era qualcosa sotto, aveva detto Flanders.
La lametta da rasoio non era sembrata importante, e neppure la lampadina e l’accendino, ma adesso, all’improvviso, erano tutti importanti. Migliaia di uomini avrebbero perduto il posto, e sarebbero tornati a casa per affrontare la famiglia, annunciando: «Be’, è andata così. Dopo tutti questi anni, non ho più un lavoro.»
I familiari avrebbero continuato a fare quello che facevano, in un silenzio teso e terribile, in una strana atmosfera di paura, e l’uomo avrebbe comprato tutti i giornali e avrebbe cominciato a consultare le colonne delle offerte di lavoro, e poi sarebbe uscito, e altri uomini, nei loro gabbiotti o dietro le loro scrivanie, avrebbero scrollato la testa, cortesemente ma con fermezza, in segno di diniego.
E alla fine, dopo aver visitato chissà quanti gabbiotti e chissà quante scrivanie, l’uomo sarebbe andato in uno di quei posti con l’insegna «Carboidrati S.p.A.» sulla porta, e sarebbe entrato con l’imbarazzo del buon operaio che non riesce a trovare un posto, e avrebbe detto: «Mi va piuttosto male, e sono rimasto a corto di denaro. Vorrei sapere…»
E l’uomo dietro la scrivania avrebbe detto: «Ma sicuro, quanti siete in famiglia?» L’uomo avrebbe risposto, e quello alla scrivania avrebbe riempito un modulo e glielo avrebbe consegnato. «Quello sportello laggiù,» avrebbe detto. «Penso che per una settimana possa bastarvi, ma se non bastasse, torni pure quando crede.»
L’uomo avrebbe preso il modulo, e avrebbe cercato di ringraziare, ma quello dei carboidrati si sarebbe schernito, e avrebbe detto: «Vede, siamo qui per questo. È il nostro mestiere, aiutare quelli come lei.»
L’uomo sarebbe andato allo sportello, e quello dietro lo sportello avrebbe guardato il modulo e poi gli avrebbe consegnato i pacchi, e in un pacco ci sarebbe stata della roba sintetica che aveva sapore di patate, e in un altro della roba che aveva sapore di pane, e in altri roba che ti dava l’impressione di mangiare granoturco e piselli.
Non era una scena immaginaria.
Tutto questo era già accaduto, e continuava ad accadere.
Non era come l’assistenza ai disoccupati… i sussidi, le pensioni, la carità pubblica, le istituzioni caritatevoli. O, almeno, si poteva dire che non era così. Quelli dei carboidrati non t’insultavano mai, quando andavi a chiedere aiuto. Non ti guardavano con l’aria di sufficienza, non ti facevano pesare quel poco che ti davano. Ti trattavano come se tu fossi un cliente pagante, un cliente rispettato e importante, e ti dicevano sempre che dovevi tornare, e qualche volta, se non ritornavi, venivano a vedere che cos’era successo… se avevi trovato un posto o se ti vergognavi di tornare da loro. E se scoprivano che ti vergognavi, si mettevano a sedere e parlavano con te, e prima che se ne andassero ti avevano convinto che in realtà eri tu a fare loro un favore, contribuendo a liberarli dei carboidrati, e che se non avessi accettato quello che ti davano, loro sarebbero stati nei guai, e allora ti sentivi più importante, e più utile, e accettavi con gioia, e avevi voglia di raddrizzare le spalle, anche se le cose non andavano bene ed era sempre più difficile trovare un posto di lavoro, buono o cattivo che fosse.