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Era questo che lo faceva soffrire… che ci si servisse di lui e che lui non lo sapesse, che Ann esistesse per uno scopo che lei non poteva neppure immaginare.

L’opera dei mutanti era più grande della tecnologia da loro messa in mostra, più grande delle automobili Aeterna e delle lamette per barba che non si consumavano e dei carboidrati sintetici. Era il salvataggio e il reinsediamento del genere umano… un nuovo inizio per una razza disorientata e avviata su una brutta strada. Era lo sviluppo di un mondo o di più mondi dove la guerra non sarebbe stata semplicemente bandita ma addirittura impossibile, dove la paura non si sarebbe imposta, dove il progresso avrebbe avuto un valore diverso da quello che aveva oggi nel mondo dell’umanità.

E in un programma simile, quale era il ruolo di Jay Vickers?

Nella casa in cui si trovava ora c’era un nuovo inizio, ed era un inizio rozzo, ma solido. Fra due o tre generazioni, la gente di questa famiglia sarebbe stata pronta per le macchine e per il progresso, e allora il progresso sarebbe stato lì, a portata di mano.

I mutanti avrebbero tolto dalle mani del genere umano i giocattoli mortali e li avrebbero custoditi fino a quando il figlio dell’Uomo fosse cresciuto abbastanza per usarli senza fare del male a se stesso e al suo prossimo. Avrebbero sottratto al bambino di tre anni il giocattolo per un ragazzetto di dodici, con cui poteva farsi male, e quando avrebbe compiuto i dodici anni glielo avrebbero restituito, probabilmente abbellito e perfezionato.

E la civiltà del futuro, sotto la guida dei mutanti, non sarebbe stata puramente meccanicistica: sarebbe stata una cultura sociale, economica, artistica e spirituale, oltre che tecnologica. I mutanti avrebbero preso l’Uomo squilibrato e l’avrebbero modellato, dandogli l’equilibrio, e gli anni perduti nel rimodellarlo avrebbero pagato gli interessi nel futuro.

Ma queste erano ipotesi, erano fantasticherie: nulla di concreto. Ciò che contava, adesso, era ciò che doveva fare lui, l’androide Jay Vickers.

Prima di poter fare qualcosa, doveva conoscere meglio quanto stava accadendo, avrebbe dovuto disporre di qualche dato incontrovertibile. Aveva bisogno d’informazioni e non poteva trovarle lì, disteso su un materasso di foglie di granturco, nella soffitta sopra la cucina della casa di un neo-pioniere.

C’era un solo luogo dove poteva procurarsi quelle informazioni.

Senza fare rumore, scivolò giù dal letto e a tentoni, nel buio, cercò i suoi abiti laceri.

37

La casa era buia, e dormiva nel chiaro di luna, con la facciata ricamata dalle alte ombre degli alberi. Si fermò nell’ombra, davanti al cancello, e la guardò, ricordando quando l’aveva vista al chiaro di luna, l’altra volta, e davanti al cancello passava una strada, ma adesso non c’erano strade. Ricordò la luce della luna che batteva sul candore delle colonne, conferendo loro una bellezza spettrale, e ricordò le parole che loro due avevano pronunciato mentre guardavano il chiaro di luna infrangersi sulle colonne.

Ma tutto questo era finito, era passato e sepolto, e gli restava solo l’amarezza di sapere che non era un uomo, ma l’imitazione di un uomo.

Aprì il cancello e si avviò per il vialetto e salì i gradini che conducevano al portico. Attraversò il portico e i suoi passi echeggiarono così forti nel silenzio da dargli la certezza che in casa l’avessero sentito.

Trovò il campanello e vi posò il pollice e premette, e poi attese, come aveva atteso un’altra volta. Ma adesso non sarebbe stata Kathleen a venirgli ad aprire.

Attese, e una luce si accese nell’atrio, e attraverso il vetro scorse una figura antropomorfa che armeggiava dietro la porta. L’uscio si aprì, e Vickers entrò, e il robot lucente s’inchinò, un po’ rigido, e disse: «Buonasera, signore.»

«Hezekiah, immagino,» disse Vickers.

«Hezekiah, signore,» confermò il robot. «Mi ha conosciuto questa mattina.»

«Sono stato a fare una passeggiata,» disse Vickers.

«Posso accompagnarla in camera sua.»

Il robot si girò e salì la scala curvilinea; Vickers lo seguì.

«Bella notte, signore,» disse il robot.

«Molto bella.»

«Ha mangiato, signore?»

«Sì, grazie.»

«Posso portarle uno spuntino, se non ha mangiato,» offrì Hezekiah. «Mi pare che sia rimasto del pollo.»

«No,» disse Vickers. «Grazie lo stesso.»

Hezekiah spalancò una porta e accese una luce, poi si trasse da parte per far entrare Vickers.

«Forse gradirebbe un bicchierino,» disse Hezekiah.

«È una buona idea, Hezekiah. Scotch, se ce n’è.»

«Tra un attimo, signore. Troverà il pigiama nel terzo cassetto. Deve essere un po’ grande, ma forse le andrà lo stesso.»

Vickers trovò il pigiama, ed era abbastanza nuovo, coloratissimo, un po’ troppo grande, ma era meglio di niente.

La stanza era simpatica, con un letto enorme dalla sovraccoperta bianca, e le tende bianche alle finestre erano agitate dalla brezza notturna.

Sedette su una poltrona ad aspettare che Hezekiah gli portasse da bere, e per la prima volta, dopo parecchi giorni, si rese conto di quanto era stanco. Avrebbe bevuto il bicchierino e si sarebbe messo a letto, e il mattino dopo sarebbe sceso al piano terreno, per affrontare la situazione.

La porta si aprì.

Non era Hezekiah: era Horton Flanders, con una veste da camera grigia abbottonata fino al collo, e le pantofole che ciabattavano sul pavimento.

Flanders attraversò la stanza, sedette su un’altra poltrona e guardò Vickers con un mezzo sorriso.

«Dunque è tornato,» disse.

«Sono tornato per ascoltare,» gli disse Vickers. «Può cominciare a parlare anche subito.»

«Ma certo,» disse Flanders. «È per questo che mi sono alzato. Non appena Hezekiah mi ha avvertito del suo arrivo, ho capito che avrebbe voluto parlare.»

«Io non voglio parlare. Voglio che parli lei.»

«Oh, sì, certamente. Sono io che debbo parlare.»

«E non dei patrimoni di conoscenza, di cui sa chiaccherare in modo tanto convincente. Di certe cose pratiche, molto concrete.»

«Per esempio?»

«Per esempio, perché io sono un androide, e perché lo è Ann Carter. E se è mai esistita una persona chiamata Kathleen Preston, o se è soltanto una storia che sono stato condizionato a credere. E se è esistita veramente una persona di nome Kathleen Preston, adesso dov’è? E infine, cosa c’entro io e voi cosa intendete fare?»

Flanders chinò la testa.

«Una serie di domande veramente ammirevoli. Me l’aspettavo, che scegliesse proprio quelle cui non posso rispondere in modo soddisfacente.»

Vickers disse:

«Ero venuto a dirvi che i mutanti vengono stanati e uccisi, sull’altro mondo, che i negozi di ’casalinghi’ vengono assaliti e dati alle fiamme, che gli umani normali hanno cominciato a reagire violentemente. Ero venuto per avvertirvi perché credevo di essere un mutante anch’io…»

«Lei è un mutante, posso assicurarglielo, Vickers. Un tipo di mutante molto speciale.»

«Un mutante androide.»

«Adesso fa il difficile,» disse Flanders. «Si lascia dominare dall’amarezza…»

«Certo, sono amareggiato,» l’interruppe Vickers. «E chi non lo sarebbe? Per quarant’anni credo di essere un uomo, e adesso scopro che non lo sono.»

«Che sciocco,» disse Flanders, tristemente. «Lei non sa che cos’è.»

Hezekiah bussò alla porta ed entrò reggendo un vassoio. Lo posò sul tavolo e Vickers vide che c’erano due bicchieri e un secchiello con il ghiaccio e una bottiglia di liquore.

«Adesso,» disse Flanders, più gaiamente, «forse potremo parlare in modo più sensato. Non so come mai, ma basta mettere un bicchiere di liquore in mano ad un uomo per cominciare a civilizzarlo.»

Si frugò nella tasca della vestaglia, tirò fuori un pacchetto di sigarette e lo porse a Vickers. Vickers lo prese, e vide che la mano gli tremava un po’, mentre estraeva una sigaretta. Fino a quel momento non si era reso conto di essere così teso.