«Lei ha detto che lo era,» dichiarò Vickers.
«Sa che cosa deve affrontare? Sa che cosa sta progettando Crawford?»
«Credo che stia progettando la guerra. Ha detto che era un’arma segreta, ma sono convinto che sia la guerra.»
«Ma la guerra…»
«Consideriamo la guerra,» disse Vickers, «in modo un po’ diverso da come è sempre stata vista dagli storici. Vediamola come un affare. Perché la guerra, sotto certi aspetti, è appunto questo. Quando un paese entra in guerra, la forza lavoro, l’industria e le risorse vengono mobilitati e controllati dai governi. Gli uomini d’affari vi hanno un ruolo non meno importante dei militari. Il banchiere e l’industriale sono in sella quanto un generale.
«Ora avanziamo di un altro passo e immaginiamo una guerra combattuta esclusivamente secondo i crismi del mondo degli affari… con lo scopo di ottenere e di conservare il dominio dei settori minacciati da noi. La guerra comporterebbe la sospensione del sistema della domanda e dell’offerta, e certi beni di carattere tipicamente civile non verrebbero più prodotti, ed i governi annienterebbero quanti tentassero di venderli…»
«Come le automobili,» disse Flanders, «e gli accendini e persino le lamette da barba.»
«Precisamente,» disse Vickers. «In questo modo guadagnerebbero tempo, perché hanno bisogno di guadagnar tempo non meno di noi. Con il pretesto militare, assumerebbero il completo controllo dell’economia mondiale.»
«Ma lei sta dicendo,» fece Flanders, «che intendono scatenare una guerra di comune accordo.»
«Ne sono convinto, disse Vickers. «La manterranno al livello minimo. Magari una bomba su New York come rappresaglia per una bomba su Mosca, e una su Chicago come rappresaglia per una su Leningrado. Rendo l’idea? Una guerra limitata, un gentlemen’s agreement. Combattere quel tanto che basta per convincere tutti che si tratta d’una guerra vera.
«Ma per quanto fosse fasulla, morirebbe egualmente moltissima gente, e ci sarebbe sempre il pericolo che qualcuno perdesse la testa, e invece di far lanciare su Mosca una bomba ne facesse lanciare due, o viceversa, oppure un ammiraglio potrebbe farsi trasportare dall’entusiasmo, ed affondare una nave che non figurava nei patti, o un generale potrebbe…»
«È incredibile,» disse Flanders.
«Lei dimentica che sono disperati. Dimentica che tutti quanti, russi e americani, francesi e polacchi e cechi, combattono per il modo di vita creato dall’Uomo sulla Terra. A loro dobbiamo sembrare i nemici più temibili che l’umanità abbia mai affrontato. Per loro siamo gli orchi e gli spiriti maligni delle favole. Sono atrocemente spaventati.»
«E lei?» chiese Flanders.
«Io tornerei alla vecchia Terra, ma ho perduto la trottola. Non so dove l’ho persa, ma…»
«La trottola non le serve. Va bene appunto per i novizi. Basta che lei voglia portarsi nell’altro mondo. Appena avrà imparato, sarà una cosa da niente.»
«E se ho bisogno di mettermi in contatto con voi?»
«Il suo uomo è Eb,» disse Flanders. «Lo cerchi.»
«Rimanderete Asa e gli altri sulla Terra numero Uno?»
«Li rimanderemo.»
Vickers si alzò e tese la mano.
«Ma,» disse Flanders, «non è necessario che vada subito. Si sieda, prenda un’altra tazza di caffè.»
Vickers scosse il capo.
«Preferisco andare.»
«I robot possono metterla in linea su New York in un batter d’occhio,» propose Flanders. «Potrebbe ritornare alla vecchia Terra da lì.»
Vickers disse:
«Voglio aver avere un po’ di tempo per riflettere. Devo fare un piano… servirmi dell’intuizione, direbbe lei. Ma credo che sia meglio partire da qui, prima di andare a New York.»
«Si compri un’automobile,» consigliò Flanders. «Hezekiah le ha procurato il danaro sufficiente per comprarla, e gliene resterà ancora. Eb gliene darà dell’altro, se ne avrà bisogno. Sarebbe pericoloso viaggiare in altro modo. Avranno preparato trappole per i mutanti. Staranno sempre in guardia.»
«Sarò prudente,» promise Vickers.
43
La stanza era polverosa, festonata di ragnatele; e vuota com’era sembrava più grande di quanto fosse in realtà. La tappezzeria si stava staccando dalle pareti e le crepe dell’intonaco correvano, come catene irregolari di fulmini, dal soffitto allo zoccolo.
Ma si vedeva benissimo che un tempo la tappezzeria era stata ricca di colore, con festoni di fiorellini, e con la figura più grande di una pastorella di Dresda che sorvegliava un gregge di pecore lanose, e sotto lo strato di polvere si scorgeva ancora il legno incerato, pronto a brillare di nuovo appena fosse stato sottratto all’incuria.
Vickers si voltò lentamente verso il centro della stanza e vide che le porte erano al loro posto, e anche le finestre, come nell’altra stanza dove si era appena alzato da tavola, dopo aver terminato di far colazione. Ma qui la porta che dava in cucina era aperta e le finestre avevano le imposte chiuse.
Avanzò di un passo, e si accorse di lasciare impronte nella polvere: e quelle orme cominciavano dal centro della stanza. Non c’erano altre orme, che portassero in quel punto: cominciavano da lì.
Guardò la stanza e cercò di ricostruirla, non come l’aveva conosciuta meno di sessanta secondi prima, ma come l’aveva vista vent’anni prima.
Oppure era una fantasia… una fantasia condizionata? C’era stato davvero, allora, in quella stanza? Era mai esistita veramente una Kathleen Preston?
Sapeva che una certa famiglia Vickers, una famiglia di poveri contadini, aveva abitato a non più di un miglio da lì. Pensò a loro… la donna, coraggiosa nell’abito lacero, nel maglione sbiadito; l’uomo con il suo patetico scaffaletto di libri accanto al letto, con la tuta lisa e la camicia troppo grande per lui, intento a leggere i libri nella fioca luce gialla della lampada al cherosene; il figlio, un bambino pasticcione che aveva l’immaginazione troppo vivace e che una volta era stato nella terra incantata.
Una mascherata, pensò… un’amara mascherata, un posto d’ascolto per spiare ciò che dicevano i nemici. Ma era stato quello il loro compito, e l’avevano svolto bene, e avevano visto il loro figlio diventare grande, e dal modo in cui cresceva avevano compreso che non rappresentava una regressione atavistica, era veramente uno di loro.
E adesso i due che avevano finto di essere contadini solitari durante tutti quegli anni ansiosi, inserendosi in una nicchia banale indegna di loro, adesso attendevano il giorno in cui avrebbero potuto prendere il posto loro spettante nella società che avevano servito, facendo da sentinella alla grande casa di mattoni, superba sulla sua collina.
Non voleva voltar loro le spalle, e adesso non poteva neppure farlo… perché non gli restava altra scelta.
Attraversò la sala da pranzo, percorse il corridoio che conduceva alla porta d’ingresso, e lasciò dietro di sé, nella polvere, una lunga scia di orme.
Oltre quella porta, lo sapeva, non c’era nulla, né Ann, né Kathleen, nulla… tranne il gelido dovere verso una vita che non era stato lui a scegliere.
Ebbe momenti di dubbio mentre attraversava in macchina la campagna, assaporando la bellezza delle cose che vedeva e udiva e odorava… i minuscoli villaggi assopiti nell’estate, con le biciclette e i carri e gli alberi che ombreggiavano i viali e le case; il primo rosseggiare delle mele estive nei frutteti; l’amichevole rombo dei grossi camion che correvano sulle autostrade; il sorriso della ragazza dietro il banco, quando ti fermavi a un ristorante lungo la strada per prendere un caffè.
Non c’era niente che non andava, si disse, niente che non andava in quei piccoli villaggi, e nei camion e nella ragazza che sorrideva. Il mondo dell’Uomo era piacevole e fertile, un bel posto per viverci.
E allora i mutanti e i loro progetti sembravano un incubo uscito da qualche rotocalco a sensazione, e mentre guidava, Vickers si chiedeva perché non poteva semplicemente fermarsi, abbandonare la macchina e immergersi in quella piacevole esistenza che vedeva tutto intorno a sé. Doveva esserci, senza dubbio, un posto per un uomo come lui: in quelle pianure ricche di granturco, dove i piccoli villaggi spuntavano ad ogni crocicchio, un uomo poteva trovare pace e sicurezza.