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Ma poi si rese conto, con riluttanza, che non cercava quelle cose per se stesso. Cercava un luogo dove nascondersi da ciò che sentiva nell’aria. Quando provava l’impulso di abbandonare la macchina sul ciglio della strada e di andarsene, lo sapeva, reagiva alla stessa paura che spingeva i Finzionisti a evadere emotivamente in un altro tempo e in un altro luogo. Era l’impulso di fuggire che gli faceva desiderare di abbandonare la macchina e di trovare un nascondiglio nella pace di quelle terre ricche di granturco.

Ma neppure lì, nel cuore agreste del continente, c’era una vera pace, una sicurezza vera. C’era una serenità animalesca e, talvolta, una certa sicurezza spensierata… se non leggevi mai un giornale, se non ascoltavi mai una trasmissione radio e non parlavi con nessuno. Perché i segnali dell’insicurezza si scorgevano dovunque, sotto l’apparenza solare: su ogni soglia e in ogni casa, e all’angolo di ogni drugstore.

Lesse i giornali, e le notizie erano brutte. Ascoltò la radio, e i commentatori parlavano di una crisi nuova, la più grave che il mondo avesse mai affrontato. Ascoltò la gente che discuteva negli atrii degli alberghi dove prendeva alloggio o nei ristoranti dove si fermava lungo la strada. Tutti parlavano e scuotevano la testa, e si capiva che erano preoccupati.

Dicevano: «Quello che non riesco a capire è come la situazione possa essere cambiata tanto rapidamente. Una settimana o due fa, sembrava che Oriente e Occidente stessero per allearsi contro i mutanti. Finalmente avevano un nemico comune, da combattere insieme anziché battersi l’uno contro l’altro, ma adesso hanno ricominciato ed è peggio di prima.»

Dicevano «Secondo me, sono i comunisti che hanno messo in piedi la faccenda dei mutanti. Si ricordi quel che le dico, i responsabili sono loro.»

Dicevano: «Non sembra neanche possibile. Siamo qui, a un milione di miglia dalla guerra, e tutto è calmo e tranquillo. E domani…»

E domani e domani e domani.

Dicevano: «Se stesse in me, mi metterei in contatto con i mutanti. Hanno certi assi nella manica, quelli, che potrebbero spedire all’inferno i comunisti.»

Dicevano: «Come dicevo quarant’anni fa, non avremmo mai dovuto smobilitare, alla fine della seconda guerra mondiale. Avremmo dovuto attaccarli allora. Avremmo potuto liquidarli in un mese o due.»

Dicevano: «Il guaio è che non si sa mai niente. Nessuno ti dice mai niente, e quando dicono qualcosa non è vero.»

Dicevano: «Io non starei a perdere tempo con quelli neanche per un minuto. Farei un bel carico di bombe e gliele scaricherei sulla testa.»

Vickers li ascoltava, e nessuno parlava di compromesso e di intesa. A sentirli, non c’era speranza che la guerra potesse venire scongiurata. «Se non adesso,» dicevano, «sarà tra cinque anni, o tra dieci, perciò facciamola finita. Bisogna colpire per primi. In una guerra simile non ci sarà una seconda occasione. O loro o noi…»

E allora Vickers comprese che persino lì, nel cuore della nazione, tra le fattorie e i piccoli villaggi e nei ristoranti sui bordi della strada, ribolliva l’odio. E questo, si disse, dava la misura della cultura edificata sulla Terra… una cultura fondata sull’odio e su un orgoglio terribile e sul sospetto verso tutti coloro che non parlavano la stessa lingua, non mangiavano lo stesso cibo o non si vestivano allo stesso modo.

Era una cultura meccanica e sghemba di macchine sferraglianti, un mondo tecnologico che poteva fornire comodità animalesche, ma non la giustizia umana e neppure la sicurezza. Era una cultura che aveva lavorato i metalli, manipolato l’atomo, domato le sostanze chimiche, e aveva costruito utensili e strumenti complicati e pericolosi. Aveva concentrato la propria attenzione sugli aspetti tecnologici, ignorando quelli sociologici, e così un uomo poteva premere un bottone e distruggere una città lontana senza neppure conoscere la vita e le abitudini e i pensieri e le speranze e le convinzioni delle persone che aveva ucciso.

Sotto la superficie lucida si poteva udire il rombo minaccioso delle macchine, e gli ingranaggi e i pignoni, la cinghia di trasmissione, il generatore, senza il lievito della comprensione umana, erano le avanguardie del disastro.

Vickers guidava e si fermava a mangiare e proseguiva. Mangiava, dormiva e guidava. Guardava i campi di granturco e le mele che rosseggiavano nei frutteti e udiva il canto dei mietitori e odorava il profumo del trifoglio e guardava il cielo e capiva che Flanders aveva ragione, che per sopravvivere l’Uomo doveva mutare, e che la mutazione della sopravvivenza doveva vincere prima che scoppiasse la tempesta dell’odio.

Ma non erano soltanto le notizie sulla guerra imminente a riempire le colonne dei quotidiani e i quarti d’ora frenetici dei commentatori radiofonici.

C’era ancora la minaccia dei mutanti e l’odio verso i mutanti e le esortazioni incessanti a vigilare contro i mutanti. C’erano disordini e linciaggi, e negozi di «casalinghi» incendiati.

E qualcosa d’altro.

Un sussurro insinuante che si spargeva dovunque, che veniva ripetuto agli angoli dei drugstores e ai crocicchi polverosi e nei locali notturni semibui delle città più grandi… e quel mormorio affermava che c’era un altro mondo, un mondo nuovo di zecca dove ci si poteva rifare una vita, dove ci si poteva rifugiare, sfuggendo i millenni di errori accumulati dal mondo attuale.

All’inizio la stampa era stata cauta, poi aveva pubblicato articoli prudenti dai titoli molto sobri, e i commentatori radiofonici erano stati altrettanto cauti, in principio, ma poi si erano buttati. In pochi giorni le notizie dell’altro mondo e degli strani individui dagli occhi lucenti che avevano parlato con qualcun altro (sempre qualcun altro) e che affermavano di venire da quell’altro mondo erano passate a figurare accanto alle notizie sulla guerra imminente e sulle manifestazioni d’odio contro i mutanti.

Si sentiva che il mondo era sulle spine, inquieto, teso come lo squillo improvviso e stridente d’un telefono nel cuore della notte.

44

Cliffwood, al calar della sera, aveva l’odore e la presenza di casa, e Vickers guidava per le strade e si sentiva la gola stretta da un nodo di smarrimento, perché era stato lì che aveva pensato di stabilirsi definitivamente, di trascorrere gli anni scrivendo, mettendo sulla carta i pensieri che gli sgorgavano dentro.

Lì c’erano la sua casa e i suoi mobili e il manoscritto, e il rozzo scaffale carico di libri, ma non era più casa sua e ormai, lo sapeva, non lo sarebbe stata mai più. E non era tutto, pensò. La Terra, la terra d’origine degli umani, la terra con la T maiuscola, non era più la sua patria e non avrebbe più potuto esserlo.

Per prima cosa sarebbe andato a trovare Eb, e poi sarebbe andato a casa, a prendere il manoscritto. Lo avrebbe consegnato ad Ann, pensò: lei glielo avrebbe conservato.

Poi ci ripensò, e decise che avrebbe dovuto trovare qualche altro posto, perché non voleva vedere Ann… anche se sapeva che non era esattamente la verità. Voleva vederla, ma sapeva che non doveva, perché adesso c’era tra loro la quasi certezza che entrambi erano parte di un’unica vita.

Fermò la macchina davanti alla casa di Eb e restò per un momento a guardarla, meravigliandosi del nitore ordinato della casa e del giardino, perché Eb viveva solo, non aveva né moglie né figli, e non capitava spesso che un uomo solo tenesse così bene la propria casa.

Avrebbe trascorso solo un minuto con Eb, gli avrebbe detto quanto era accaduto, quanto stava accadendo, avrebbe preso accordi per rimanere in contatto con lui, e avrebbe saputo da lui le notizie più importanti.