Voltò le spalle alla vetrina e s’incamminò lentamente lungo la strada. Era stato assurdo venire lì, si disse, ma c’era stata una possibilità, sebbene vaga, come erano tutte le sue possibilità.
Girò l’angolo e in una piazza polverosa, dall’altra parte della strada, si era radunata una folla numerosa, per ascoltare qualcuno che era salito su una panchina e stava parlando.
Oziosamente, Vickers attraversò la strada e si fermò di fronte alla folla.
L’uomo in piedi sulla panchina si era tolto la giacca, rimboccandosi le maniche e allentando la cravatta. Parlava in tono discorsivo, sebbene le sue parole giungessero fino a Vickers, dall’altra parte del giardino pubblico.
«Quando verranno le bombe,» chiese l’uomo, «che cosa accadrà? Ci dicono di non aver paura. Ci dicono, continuate a fare il vostro lavoro e non abbiate paura. Vi hanno detto di restare e di non preoccuparvi, ma loro cosa faranno, quando arriveranno le bombe? Vi aiuteranno, allora?»
Fece una pausa, e la folla era tesa, tesa in un silenzio terribile. Quasi si sentivano i muscoli aggrovigliati che serravano le mascelle e la mano che stringeva il cuore fino a raggelare tutto il corpo. E si captava la paura…
«Non vi aiuteranno,» disse l’oratore, lentamente, con fermezza. «Non vi aiuteranno, perché niente potrà aiutarvi. Sarete morti, amici miei. Morti a decine di migliaia. Morti nel sole divampato sopra la città. Morti e ridotti in nulla. Morti, e atomi irrequieti.
«Voi morirete…»
Da lontano giunse l’ululato delle sirene, e a quel suono la folla si agitò inquieta, quasi rabbiosa.
«Voi morirete,» disse l’oratore, «mentre non c’è bisogno di morire, perché c’è un altro mondo che vi attende.
«La chiave dell’altro mondo è la miseria. La miseria è il biglietto che vi servirà per compiere il viaggio. Basta che lasciate il vostro lavoro, che rinunciate a tutto ciò che avete… e gettiate via tutto ciò che avete. Potrete andare solo a mani vuote…»
Le sirene erano più vicine e la folla mormorava, si agitava, come un grosso animale che cominciasse a destarsi. Il suono della sua voce corse attraverso la piazza come l’improvviso fruscio di foglie nel vento che precede un uragano.
L’oratore levò di nuovo la mano, e vi fu immediatamente silenzio.
«Amici,» disse, «perché non mi ascoltate? L’altro mondo vi attende. Prima vi vanno i poveri. I poveri e i disperati, coloro di cui questo mondo non sa più cosa farsi. L’unico modo per andarvi è l’assoluta miseria: a mani vuote, senza nulla.
«Nell’altro mondo non vi sono bombe. Si ricomincia daccapo. Un intero mondo nuovo, quasi esattamente identico a questo, con alberi ed erba e suolo fertile e selvaggina sulle colline, e fiumi ricchi di pesci. Il posto che avete sempre sognato. E c’è la pace.»
Adesso le sirene erano più numerose, e si stavano avvicinando.
Vickers scese dal marciapiedi e attraversò correndo la strada.
Una macchina della polizia girò l’angolo, stridendo, slittando e raddrizzandosi, con i pneumatici che fischiavano sull’asfalto e la sirena che ululava come in preda alla sofferenza.
«Scusi?»
Arrivato quasi al marciapiede, Vickers inciampò e cadde lungo disteso. Istintivamente, si sollevò sulle mani e sulle ginocchia, lanciò uno sguardo verso la macchina della polizia che gli stava piombando addosso e capì che non ce l’avrebbe fatta, prima che riuscisse a rialzarsi sarebbe stato travolto.
Una mano uscita dal nulla l’abbrancò per un braccio, tirò, e Vickers si sentì catapultato fuori dalla strada, attraverso il marciapiedi.
Un’altra macchina della polizia girò l’angolo, slittando, con i pneumatici appiattiti che stridevano, ed era come se la prima fosse ritornata per fare una seconda entrata in scena.
La folla si disperdeva, correndo disperatamente.
La mano gli diede uno strattone al braccio, lo rimise in piedi, e Vickers vide per la prima volta l’uomo, un uomo dal maglione lacero, con una vecchia cicatrice irregolare di coltello che gli sfregiava la guancia.
«Presto,» disse l’uomo, mentre la cicatrice fremeva ad ogni parola, e i denti balenavano nel volto ombreggiato dai baffi.
Spinse Vickers in uno stretto vicolo tra due edifici, e Vickers si lanciò a corsa, curvando le spalle, tra i muri di mattoni che sorgevano ai due lati.
Sentì l’ansimare dell’uomo che lo seguiva correndo.
«A destra,» disse l’uomo. «Una porta.»
Vickers afferrò la maniglia e la porta si spalancò su di un corridoio buio.
L’uomo entrò insieme a lui e chiuse la porta, e rimasero fermi nel buio, ansanti per la corsa, e gli ansiti battevano come un cuore irregolare nella tenebra soffocante.
«C’è mancato poco,» disse l’uomo. «I poliziotti diventano sempre più rapidi. Basta cominciare un comizio e…»
Non finì la frase. A tentoni, toccò il braccio di Vickers.
«Mi segua,» disse. «Stia attento ai gradini.»
Vickers lo seguì, brancolando, giù per la scala scricchiolante, mentre l’odore di muffa d’una cantina si faceva più forte ad ogni gradino.
In fondo alla scala, l’uomo scostò una coperta appesa come una tenda, ed entrarono in una stanza fiocamente illuminata. In un angolo stava un vecchio pianoforte scalcinato, in un angolo un mucchio di casse: al centro c’era un tavolo, intorno al quale sedevano quattro uomini e due donne.
Uno degli uomini disse:
«Abbiamo sentito le sirene.»
Lo sfregiato annuì.
«Charley stava andando proprio bene. La gente stava per mettersi a gridare.»
«Chi è il tuo amico, George?» chiese un altro.
«Scappava,» disse George. «Per poco non è stato investito da un’auto della polizia.»
Guardarono tutti Vickers, con interesse.
«Come si chiama, amico?» chiese George.
Vickers glielo disse.
«È a posto?» chiese qualcuno.
«Era là,» disse George. «E scappava.»
«Ma è rischioso…»
«Lui è un tipo a posto,» disse George, ma Vickers notò che lo diceva con troppa veemenza, con troppa ostinazione, come se adesso si rendesse conto di aver commesso un errore conducendo lì uno sconosciuto.
«Beva qualcosa,» disse uno degli uomini. E spinse sulla tavola una bottiglia, verso Vickers.
Vickers sedette e prese la bottiglia.
Una delle donne, la più bella delle due, gli disse:
«Mi chiamo Sally.»
Vickers disse: «Lieto di conoscerla, Sally.»
Si guardò intorno. Nessuno degli altri sembrava disposto a preentarsi.
Alzò la bottiglia e bevve. Era roba scadente, e lo fece tossire un po’.
«È un attivista?» chiese Sally.
«Prego?»
«Attivista o purista?»
«È un attivista,» disse George. «Era là in mezzo a tutti gli altri.»
Vickers notò che George sudava leggermente per la paura di avere sbagliato.
«Sicuro come l’inferno che non ne ha l’aria,» disse uno degli uomini.
«Sono un attivista», disse Vickers, perché si rendeva conto che a quelli andava bene così.
«È come me,» disse Sally. «È un attivista per principio, ma un purista per predilezione. Non è esatto?» chiese a Vickers.
«Sì,» disse lui. «Credo sia proprio così.»
Bevve un altro sorso.
«Qual è il suo periodo?» chiese Sally.
«Il mio periodo,» disse Vickers. «Oh, sì, il mio periodo.»
E ricordò il viso pallido e intenso della signora Leslie, mentre gli chiedeva quale periodo storico, secondo lui, poteva essere più emozionante.
«Carlo secondo,» disse.
«Ci ha messo un po’ a rispondere,» disse uno degli uomini, insospettito.
«Ho pasticciato un po’ con diversi periodi,» spiegò Vickers. «Per provare, ecco. Mi è occorso un po’ di tempo per trovare quello che mi andava bene.»