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La buona novella è al sicuro, pensò Vickers. È stata affidata a mani che la difenderanno e la coltiveranno, che non faranno altro se non difenderla e coltivarla.

La signorina Stanhope continuava a leggere e l’anziana signora chinava la testa, un po’ assonnata, ma teneva ben stretto il tagliacarte, e tutti gli altri ascoltavano, alcuni per pura educazione, ma molti con vivo interesse. Al termine della lettura, avrebbero fatto domande su particolari della ricerca, e avrebbero chiesto chiarimenti, avrebbero avanzato suggerimenti per la revisione del diario, e si sarebbero congratulati con la signorina Stanhope per la perfezione del suo lavoro. Poi si sarebbe alzato qualcun altro e avrebbe letto episodi della propria vita in un altro tempo e in un altro luogo. E anche stavolta gli altri avrebbero ascoltato, avrebbero ripetuto la scena.

Vickers ne sentiva tutta l’inutilità, la vanità patetica e disperata. La stanza sembrava satura del profumo di magnolia, del profumo di rose, del profumo di spezie di tanti anni polverosi.

Quando la signorina Stanhope ebbe finito, e tutti cominciarono a fare domande, Vickers si alzò senza fare rumore dalla sua sedia e uscì, fuori, in strada, per sentirsi un poco più libero, o un poco più solo.

Vide brillare le stelle. In un cielo che non era quello purissimo di quell’altra Terra, in un cielo offuscato da nebbia e vapori, quelle stelle brillavano ugualmente, più rade, forse, meno gloriose, ma sempre palpitanti, e quel palpito era come il palpito di menti lontane e arcane, che pensavano strani pensieri alieni, e che vivevano tra i mondi senza fine dell’Universo, e che qualcuno poteva ascoltare.

E vedendo le stelle ricordò qualcosa.

Domani lui sarebbe andato a trovare Ann Carter.

Doveva farlo.

Ed era un errore, lo sapeva. Perché, allo stesso modo in cui gli era necessario trovarla, lui non doveva vedere Ann Carter, tra tutte le persone del mondo.

47

Suonò il campanello e attese. Quando udì i passi di lei, capì che avrebbe dovuto volgere le spalle alla porta e fuggire, fuggire con tutta la forza che aveva nelle gambe, anche se sapeva che non sarebbe riuscito a farlo. Perché lui non aveva il diritto di venire lì, e sapeva che non avrebbe dovuto… avrebbe dovuto sbrigare prima le cose più importanti, e non c’era motivo per venirla a trovare, perché il sogno di Ann era finito, finito come il sogno di Kathleen e della valle al chiaro di luna e dei diciott’anni strani e felici di un mondo incantato che non era stato vero, e non era stato falso, e aveva avuto qualcosa dell’una e dell’altra cosa, a sufficienza da riuscire a fare del male.

Ma aveva dovuto venire: aveva dovuto, letteralmente. Si era fermato due volte davanti al portone del palazzo, e poi aveva girato sui tacchi e se ne era andato. Questa volta non se ne era andato, non poteva andarsene: era entrato e adesso era lì, davanti alla porta, ad ascoltare il suono dei passi che si avvicinavano, pensando al silenzio che aveva risposto dall’altro capo del filo quando le aveva telefonato, un giorno che era vicino ma gli sembrava separato da torrenti di eternità da quel momento, un giorno nel quale aveva cominciato a sapere, ma era stato fortunato, e non aveva ancora saputo abbastanza.

E cosa le avrebbe detto, si domandò freneticamente, quando la porta si fosse aperta? Che cosa avrebbe fatto? Sarebbe entrato come se non fosse successo niente, come se lui fosse stato la stessa persona, e lei la stessa persona, del loro ultimo incontro?

Doveva dirle che era una mutante, e peggio ancora un androide, una donna artificiale?

La porta si aprì, e lei era una donna, incantevole come la ricordava; e tese le mani e l’attirò dentro, e chiuse l’uscio e vi si appoggiò contro.

«Jay,» disse Ann. «Jay Vickers.»

Lui tentò di parlare, ma non ci riuscì. Rimase lì a guardarla e a pensare: Non può essere vero. È una menzogna. Non è vero.

«Cos’è successo, Jay?» domandò lei. «Avevi promesso… avevi promesso di chiamarmi…»

Vickers tese le braccia, mentre cercava di vietarselo, e lei compì un movimento rapido, quasi disperato, e vi si rifugiò. La tenne stretta, e fu come se fossero immersi nella consolazione suprema di un’infelicità che ciascuno aveva creduto ignorata dall’altro.

«In principio ho pensato che tu fossi un po’ pazzo,» disse lei, sottovoce. «Ricordando certe cose che avevi detto al telefono da quella cittadina del Wisconsin, mi ero quasi convinta che avessi qualcosa che non andava… che ti avesse dato un po’ di volta il cervello. Poi il giorno dopo sono accadute tante cose, e non è più stato come prima, e allora ho pensato… ho pensato… ho pensato le cose più orribili e non ho saputo rimanere calma, e ho avuto paura, perché ricordavo altre cose, strane cose da niente che tu avevi fatto o detto o scritto, e…»

«Calmati, Ann,» le disse. «Non hai bisogno di dirmelo.»

«Jay, ti eri mai chiesto, prima, se eri completamente umano? Se non c’era in te qualcosa di diverso… di inumano?»

«Sì,» disse lui. «Me lo ero chiesto… spesso.»

«E io sono sicura che non lo sei, ed è per questo che ho avuto paura. E allo stesso tempo sono stata felice, perché per me va bene così, perché anch’io… anch’io penso di non essere umana.»

Allora Vickers la strinse più forte. Ora che si sentiva cinto dalle braccia di lei, comprese finalmente che, l’uno aggrappato all’altra, erano due anime smarrite e senza amici in un mare di umanità. Ognuno di loro aveva soltanto l’altro. L’altro, e i propri terrori, le proprie apprensioni, le angosce che non aveva osato confessare neppure a se stesso negli anni che erano passati, la paura che aveva spinto Ann a fuggire dalla sua casa e dal suo ufficio quel giorno, quando c’era stata la rivelazione, quando tutti avevano parlato della cosa che era stata rivelata… e poi, attraverso chissà quali abissi di terrore e di sofferenza, lei era ritornata, era riuscita a capire il suo smarrimento, era ritornata a stare là, sfidando il pericolo, temendo per lui. Era la solitudine e il dubbio e la sofferenza di molto, molto tempo, la cosa tanto dolce che li univa. Anche se tra loro non vi fosse stato amore, dovevano stare vicini, uniti contro il mondo.

Il telefono squillò, dal tavolo in fondo, e loro lo udirono appena.

«Ti amo, Ann,» disse Vickers, e una parte del suo cervello che non era lui, era un osservatore freddo e distaccato, gli ricordò che sapeva di non poterla amare, che era impossibile e immorale e assurdo amare qualcuna che poteva essergli più vicina di una sorella, e la cui vita un tempo era stata parte della sua vita, e in futuro si sarebbe fusa con la sua vita in un’altra personalità, forse completamente ignara di loro.

«Ho ricordato,» gli disse Ann, con voce vaga e lontana, «e non ho compreso bene. Forse tu puoi aiutarmi a capire.»

Con le labbra irrigidite dall’apprensione, Vickers chiese:

«Che cos’hai ricordato, Ann?»

«Una passeggiata, insieme a qualcuno. Ho tentato, ma non ricordo il suo nome, anche se riconoscerei il suo viso, dopo tutti questi anni. Passeggiavamo in una valle, scendendo da una grande casa di mattoni che sorgeva su una collina, in fondo. Passeggiavamo nella valle ed era primavera perché i meli selvatici erano in fiore, e c’erano uccelli che cantavano, e la cosa più strana di quella passeggiata è che non l’ho mai fatta, eppure la ricordo. E anche questo mi ha fatto paura, insieme a tutte le altre cose, eppure mi ha dato un senso di nostalgia, e non l’ho saputo spiegare. Jay, che cosa mi sta capitando? Che cosa sta succedendo a tutti? Come si può ricordare qualcosa, Jay, quando sai bene che non è mai accaduto?»

«Non so,» disse Vickers. «Forse è l’immaginazione. Qualcosa che hai letto da qualche parte.»