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Sta segnalando la mia presenza, pensò. C’è un analizzatore in ascensore, e aveva emesso un segnale che solo l’operatore aveva captato. E c’erano altri analizzatori ovunque, aveva detto Crawford, nelle stazioni ferroviarie e nei depositi degli autobus e nei ristoranti… dovunque poteva andare un uomo.

Quando un analizzatore individuava un mutante, l’informazione veniva inoltrata… magari a una squadra di sterminatori, e questi davano la caccia al mutante. Forse l’individuavano con analizzatori portatili, o forse c’erano altri modi, e quando l’avessero trovato, tutto sarebbe finito.

Tutto finito perché il mutante non sapeva, perché non poteva prevedere la morte che lo inseguiva. Con un momento di preavviso, con un momento per concentrarsi, poteva scomparire, come erano scomparsi gli altri quando gli uomini di Crawford avevano tentato di rintracciarli per interrogarli e parlamentare.

Crawford l’aveva detto: «Suoniamo il campanello e aspettiamo. Ci sediamo in una stanza e aspettiamo.»

Ma adesso nessuno suonava il campanello.

Adesso tendevano imboscate e sparavano. Ti colpivano nel buio. Sapevano chi eri e ti segnavano, per ucciderti. E tu non avevi possibilità di cavartela, perché non avevi un preavviso.

Era così che era morto Eb, ed erano morti gli altri, abbattutti senza possibilità di salvarsi perché gli uomini di Crawford non potevano permettersi di lasciare un attimo di preavviso a chi era destinato a morire.

Ma sempre, prima, quando Jay Vickers era stato individuato, si sapeva che era uno dei pochi da non molestare… lui e Ann e forse altri due o tre. Attraverso canali che lui non conosceva, attraverso sistemi che dovevano tenere nel massimo conto la sicurezza e la segretezza, ma che erano certamente efficienti, questa parola d’ordine era circolata tra i cacciatori, e Vickers era stato sempre protetto, anche nei momenti nei quali si era trovato in pericolo. Perché Crawford aveva pensato di poterlo trovare utile, in qualche modo, aveva pensato di concludere un accordo con lui.

Ma adesso tutto sarebbe stato diverso.

Adesso lui era solo un mutante, un ratto inseguito, come tutti gli altri. Uscì sul marciapiedi, davanti al palazzo, e si fermò per un attimo, guardando la strada.

Un tassi, pensò: ma ci sarebbe stato un analizzatore anche sul tassi. Ma forse gli analizzatori erano dovunque. Doveva essercene uno anche nel palazzo dove abitava Ann, altrimenti come avrebbe fatto Crawford a sapere così presto del suo arrivo?

Non poteva schivare gli analizzatori, non poteva nascondersi, né fare in modo che non sapessero dove andava.

Si accostò all’orlo del marciapiedi e fece segno a un tassi di passaggio. La macchina accostò, e Vickers salì, diede l’indirizzo all’autista.

L’uomo si voltò a lanciargli un’occhiata sbalordita.

«Calma,» disse Vickers. «Non avrà fastidi, se non cerca di fare qualcosa.»

L’autista non rispose.

Vickers stava aggobbito sull’orlo del sedile.

«Va bene, amico,» disse finalmente l’uomo. «Non cercherò di far niente.»

«Bene,» disse Vickers. «Allora andiamo.»

Guardò i palazzi sfrecciargli accanto, tenendo nel contempo d’occhio il tassista, spiando ogni mossa che potesse segnalare la presenza di un mutante a bordo: ma non ne notò alcuna.

Un pensiero lo colpì. E se lo stavano aspettando nell’appartamento di Ann? Se fossero andati lì immediatamente e l’avessero trovata, e adesso stessero aspettando lui?

Era un rischio che doveva correre, decise.

Il tassi si fermò davanti al palazzo. Vickers aprì la portiera e balzò fuori. L’autista filò via, senza aspettare neppure di venire pagato.

Vickers corse verso il portone, e senza prendere l’ascensore salì le scale a precipizio.

Arrivò alla porta di Ann, abbrancò la maniglia e la girò, ma il metallo liscio gli scivolò sotto le dita. Era chiusa a chiave. Suonò e non accadde nulla. Suonò ancora e ancora. Poi indietreggiò fino al muro di fronte e si avventò contro l’uscio. Lo sentì cedere, leggermente. Indietreggiò ancora. Al terzo tentativo la serratura saltò, lo mandò a finire lungo disteso.

«Ann!» gridò, balzando in piedi.

Non ebbe risposta.

Cominciò a correre da una stanza all’altra e non trovò nessuno.

Si fermò per un attimo, coperto di sudore.

Ann non c’era. Avevano così poco tempo, e Ann non c’era!

Dove poteva essere andata? Non era passato molto tempo, da quando l’aveva lasciata.

Si precipitò fuori, scese correndo le scale.

Quando arrivò sul marciapiedi, le macchine si stavano fermando, una dietro l’altra: erano tre, e altre due erano dall’altra parte della strada. Cominciarono a scenderne degli uomini, uomini armati di pistola.

Vickers cercò di girare su se stesso per rientrare dal portone, e andò a sbattere contro qualcuno, e vide che era Ann, le braccia cariche di sacchetti, e da un sacchetto, notò, sporgeva la sommità piena di foglie di un mazzo di sedano.

«Jay,» disse lei. «Jay, cosa succede? Chi sono tutti quegli uomini?»

«Presto,» disse lui, «entra nella mia mente. Come hai fatto con gli altri, per sapere quello che pensano.»

«Ma…»

«Presto!»

La sentì entrare nella sua mente, cercare brancolando i suoi pensieri, aggrapparvisi.

Qualcosa colpì il muro del palazzo sopra le loro teste e rimbalzò verso il cielo, con l’urlo del metallo torturato. Gas, pensò per un momento. Dunque volevano prenderli in un altro modo.

«Tienti stretta,» disse Vickers. «Ce ne andiamo.»

Chiuse gli occhi e volle essere sull’altra Terra, con tutta la fretta e la volontà di cui era capace. Sentì il tremito nella mente di Ann, e poi sdrucciolò e cadde. Batté la testa su qualcosa di duro e le stelle gli turbinarono dentro il cervello, e qualcosa gli ferì la mano, e qualcosa d’altro gli cadde addosso.

Udì il fruscio del vento tra gli alberi. Aprì gli occhi, e intorno a lui non c’erano palazzi.

Giaceva steso sul dorso, ai piedi d’un macigno di granito grigio. Un sacchetto di generi alimentari, da cui spuntava la parte superiore di un sedano, gli era finito sullo stomaco.

Si raddrizzò a sedere.

«Ann,» chiamò.

«Sono qui,» disse lei.

«Sei tutta intera?»

«Fisicamente sì, mentalmente no. Cos’è successo?»

«Siamo caduti dal macigno,» disse Vickers.

Si alzò, e tese una mano per aiutarla a rimettersi in piedi.

«Ma il macigno, Jay. Dove siamo?»

«Siamo sulla seconda Terra,» disse Vickers.

Si guardarono intorno… un territorio selvaggio, desolato, boscoso, cosparso di macigni, e con spuntoni di granito che sporgevano dai pendii.

«La seconda Terra,» ripeté Ann. «Quella storia assurda di cui parlavano i giornali? Quella cosa…»

Vickers annuì, serio.

«Sì, Ann. Proprio quella cosa. E non c’è niente di assurdo, perché è vero. È tutto vero.»

«Be’, non importa dove siamo,» disse Ann. «Vedi, prima avevo paura, e adesso mi sembra… mi sembra che questo posto sia così pieno di pace.»

Vickers annuì.

«Sì, Ann. È un posto pieno di pace.»

«E siamo fortunati,» disse Ann, con un sorriso, che fu come un guizzo della sua personalità che riemergeva da giorni di incertezza e di strani pensieri, «Abbiamo portato la cena, con noi.»

Ed era vero. Intorno c’erano i sacchetti che Ann aveva portato con sé, da qualche negozio vicino, e adesso lontano al di là di ogni immaginazione, e le cose che erano rotolate intorno, spargendosi qua e là nel momento della caduta, erano le cose buone che lei aveva comprato, pensando forse che Vickers sarebbe ritornato da lei, come aveva promesso.

Silenziosamente, con la testa che ancora gli doleva un poco, Vickers s’inginocchiò, e cominciò a raccogliere le cose sfuggite dai sacchetti sul pendio erboso.